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Sì, è una bestemmia dire che Dio uccide. Papa Francesco: “la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia”: chiaro, no? Sì, tutto chiaro. Ma da che mondo è mondo, la guerra fa uso di simbologia religiosa, chiama gli animi a qualche forma di guerra […]

Sì, è una bestemmia dire che Dio uccide. Papa Francesco: “la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia”: chiaro, no? Sì, tutto chiaro. Ma da che mondo è mondo, la guerra fa uso di simbologia religiosa, chiama gli animi a qualche forma di guerra santa, offre scenari mistici. Usare la religione per giustificare la guerra non è, purtroppo, una novità. Chiara Canta lo spiega quando riconosce, con tristezza, che le religioni possono ispirare, legittimare, provocare guerre. Michele D’Avino lo richiama quando cita alcuni fatti storici legati alla guerra per motivi religiosi ma mossi, in realtà, da un dio assai più prosaico, il dio-denaro o quello degli interessi geo-politici.

Fatto sta che ci troviamo di fronte ad una sfida che va oltre la terribile razionalità della guerra intesa come prosecuzione della politica con altri mezzi: qui c’è dell’altro, qui c’è una dimensione religiosa che, se usata in modo scorretto, rischia di dare spessore alla violenza, di darle perfino un’anima. È per questo che abbiamo intitolato così il nostro approfondimento di gennaio, richiamando implicitamente nel titolo il lavoro di James Hillman: la guerra come un dio.

Bisogna stare molto attenti a come costruiamo la contromossa, la controcultura. Certo, ci vuole una particolare attenzione pedagogica, un’educazione, come la definisce nella sua testimonianza Maria Chiara Prodi. Certo, ci vuole la capacità di immaginare un vero e proprio salto di coscienza planetaria, un’inedita pedagogia dell’umanità nascente, come richiama con forza Marco Guzzi. In tutti i casi questo significa che un’educazione alla pace, oggi, necessita un serio ripensamento, se non vuole essere preda di stereotipi. Ma significa anche che un’educazione alla pace non si deve rivolgere solo alla dimensione economica e politica: anche la religione – la dimensione spirituale – contribuisce enormemente al disvelamento di una cultura della pace radicata nel profondo umano che fatica ad emergere, ad essere visto e vissuto.

Proprio per questo ci pareva decisivo sentirsi parte di un’unica comunità spirituale che ripensa la propria educazione alla pace. E allora ecco in questo numero i contributi, sotto forma di intervista, di Adnane Mokrani, islamista, di Yahya Sergio Yahe Pallavicini, Imam di Milano, di Riccardo Segni, Rabbino capo della comunità ebraica romana e di Paolo Naso, giornalista appartenete alla Chiesa Valdese. Al dio della guerra noi rispondiamo col Dio della pace, nella convinzione che – come afferma Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium – l’unità sia superiore al conflitto: anche a quello dichiarato con fini religiosi.

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