Ultimamente “la pace” si è identificata con “religione”, e giustamente: costituiscono quasi un ossimoro! I due termini da incompatibili stanno diventando ‘distinguibili’, capaci cioè di segnare lo specifico di un popolo e di caratterizzarlo. Un tempo ‘la guerra’ si faceva per altri motivi (il potere, il dominio) e ‘la religione’, che era un ‘derivato’, faceva da contorno.
Nella storia moderna occidentale diverse guerre hanno insanguinato i nostri territori: ‘guerre di religione’, venivano chiamate, perché all’origine c’era stato un motivo religioso. Papi e Imperatori stavano a fronteggiarsi con grande spargimento di sangue. Poi le medesime guerre si combatterono per la conquista di un territorio e divennero “guerre dei trent’anni” o “delle rose” (molto gentili e profumate!!). In tempi recenti, a noi più vicini, le guerre prescindevano dalla religione, ma essa segnava certamente una demarcazione: le autorità religiose non prendevano parte ai conflitti, predicavano la pace, ma la pace restava un miraggio!
Ai nostri giorni si riaccendono i ‘fuochi’ della guerra: la religione torna ad essere la ragione principale delle divisioni. Non che le altre ragioni (territori, dominio, ricchezze…) siano superate, ma la religione è assurta a ragione principale “ideale” per cui vale la pena combattere e, quasi sempre, morire. La religione non tanto come credenza in Dio, quanto come ‘semplice’ appartenenza religiosa, spesso nominalistica, come elemento identificativo, è il motivo e la ‘ragione’ per cui due popoli entrano in guerra in nome di due religioni diverse: Islam e Cristianesimo. Ma c’è altro. Basti pensare al Califfo (al c.d. califfato!): sono due religioni che si affrontano, l’islamismo e la religione cristiana. Non tanto per motivi di conquiste territoriali (anche!), ma per il “possesso” di persone e gruppi, l’affermazione di dominio sugli altri. Per ragioni ideologiche. E’ anche una ‘guerra’ tra due popoli che dovrebbero appartenere alla stessa religione, ambedue Musulmani, ambedue discendenti dallo stesso Profeta Maometto: sunniti e sciiti, l’Arabia Saudita, e ora anche il Bahreim, da una parte e l’Iran con Houth in Yemen e gli Hezbollah dall’altra, con altri territori ad essi correlati.
Perché le religioni generano spesso contrapposizioni, scontri, conflitti e guerre? Perché si continua ad uccidere in nome di Dio? Si tratta di un fenomeno inevitabile perché, come ha affermato Paul Ricoeur “il pericolo della violenza è alla base di ogni convinzione forte” o bisogna individuare i modi per superarlo, come ha risposto Hans Kung con riferimento al “Manifesto per un’etica planetaria”, proposto dal Parlamento delle religioni del mondo a Chicago già nel 1993? Alla base di del dibattito tra questi due intellettuali, uno protestante e l’altro cattolico, c’è il fatto che ogni persona umana deve essere trattata in maniera umana (H. Kung, P. Ricoeur, Il lato oscuro della fede. Religioni, violenza e pace, Medusa, Milano 2015).
Spesso gli esponenti della religioni dicono che le religioni sono strumentalizzate ma ciò non è vero, anche se a volte accade, quando si citano come armi i testi sacri, versetti della Bibbia o del Corano. Con grande tristezza, bisogna riconoscere che oggi le religioni possono ispirare delle guerre, che possono legittimarle e provocarle.
Riconoscere questo significa pensare che non ci sarà mai una pace duratura tra le nazioni finché non ci sarà la pace tra le religioni. “La pace tra le religioni è una componente determinante per giungere alla pace in queste regioni” (Kung, Ricoeur, op. cit. 2015)
È necessario affermare con onestà e chiarezza che la pace ha diverse dimensioni: politica, giuridica, etica e religiosa. Se questi elementi convergono verso lo stesso obiettivo allora la pace sarà possibile. Anche nel corso del novecento, il “secolo breve” delle grandi guerre, abbiamo sperimentato situazioni positive dove c’è stata una trasformazione radicale senza spargimento di sangue: nell’ex RDT, in Cecoslovacchia, nei Paesi dell’Est, ma anche in Sud Africa, nelle Filippine. In questi Paesi hanno operato delle persone motivate da ideali religiosi che hanno rifiutato il sistema di violenza esistente. I leaders (ma non solo!) hanno detto il loro no, ma non hanno voluto spargimenti di sangue, hanno voluto realizzare le trasformazioni con la non violenza. Sono solo alcuni esempi che evidenziano cosa può fare la religione, con la sua forza interiore, nel senso della non violenza”
Può sembrare un’utopia, ma oggi le due religioni (Islam e cristianesimo) possono convivere, non in un modalità di “vicinanza forzata”, in cui si impone una tolleranza reciproca (a volte una sopportazione), ma in una “convivenza dialogica” che può essere non solo “dialogo culturale”, “dialogo teologico”, “dialogo interreligioso” oltre che “dialogo su valori comuni”, in definitiva, come si esprimeva R. Panikkar (L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, Jaka Book, Milano 2006) “dialogo dialogante”.
La domanda che ci riguarda, come comunità umana e come credenti, non è quello di chiederci quale delle due sarà la religione “vera” ma che cosa è possibile fare per permettere la coesistenza pacifica nel mondo tra Islam e Cristianesimo (non solo!) e all’interno di ciascuna religione.
In conclusione, il dialogo, più che un principio o un valore, è un “metodo”, una strada da percorrere per costruire una società basata sulla convivenza: esso pertanto sarà una tappa intermedia di un processo ultimo che è la pace.