D’altra parte la povertà non si può sposare con la democrazia: una buona democrazia, realizzata e consapevole di sé, non può accettare questa unione… incivile. E non per una questione di soldi. La democrazia, semmai, allarga i confini del tema della povertà, spostandoli dal perimetro economico a quello politico, alle regole del sistema. Salvatore Rizza esplicita con chiarezza questo passaggio con due precise affermazioni: la deprivazione è sempre frutto di una cattiva distribuzione della ricchezza; la povertà è anche deprivazione di uno o più diritti civili.
L’oggetto di questo mese porta una sigla come nome. REIS. È il reddito d’inserimento, ovvero una delle proposte recentemente avanzata – in questo caso dalle Acli e dalla Caritas – per contrastare la povertà. L’Italia è uno dei pochissimi Paesi europei che non ha ancora dato risposta alle (in questo caso) benefiche pressioni dell’Ue. Sarebbe una necessità: anche di chi soffre. Non è un buon segno.
rnLa povertà trova dunque le sue radici anche nell’assenza di politiche che creano le capacità “per essere e fare”, per vivere e lavorare, così come spiega Amartya Sen (e che noi sintetizziamo attraverso la parola-chiave “capacitazione”). L’accento non è più posto sulla quantità di denaro di uno Stato elemosiniere, più o meno attento “a chi resta indietro”, semmai ad uno Stato che offre gli strumenti per promuovere tutti e ciascuno.
Ma in assenza di una reale politica mirata ad una maggiore promozione (che si potrebbe misurare in un aumento della mobilità sociale), l’Italia si cura almeno delle conseguenze? Pare di no. Marco Burgalassi ci illustra come il nostro Stato risulti strutturalmente impreparato ad affrontare la povertà: le uniche misure sono di carattere settoriale e mutevole. Ecco allora il Reis: sarà accolto? In Italia, come ci spiega Filippo Pizzolato, si rischia l’ideologizzazione del dibattito tra due estremi che non ascoltano ciò che suggerisce con equilibrio la nostra Costituzione. Si tratta di recuperare quella ispirazione lavorista che permette di sostenere chi non è in grado di lavorare (e non l’ozioso “surfista perdigiorno”).
Il modo di contrastare la povertà vive di un dibattito eterno, almeno tanto quanto il problema della povertà in sé. Lo è anche per chi sta in politica con un’ispirazione cristiana. Il nuovo Papa ci stupisce per la sua costante attenzione alle fragilità – che la Bibbia chiama, con maggiore concretezza, il povero, l’orfano e la vedova –, figlia non tanto di una politicizzazione della fede, come argomenta con acutezza Francesco Valerio Tommasi, quanto dello sviluppo del concetto di “strutture di peccato”. Si tratta di un passaggio decisivo, perché l’idea di peccato rischia di essere vissuta prevalentemente come fatto individuale e (più o meno facilmente) reversibile, mentre la struttura chiama in causa la politica e richiede tempi lunghi: chiama in causa un modello di società.
In realtà viviamo immersi in un modello di società che rischia di ridurci, come provocatoriamente richiama Marco Guzzi attraverso la citazione di Gaber, a “polli d’allevamento”, con un destino consegnato nelle mani di pochi master of the universe che guidano una macchina sociale di asservimento mentale e corporale. Allora il povero, fastidiosamente, grida: o almeno cerca di gridare, perché si rende conto che la vera povertà è l’assenza del controllo sul proprio destino.
Il grido: ci fosse sempre quello… In realtà dobbiamo prendere atto, e con amarezza, che la povertà porta anche al suicidio, come rileva Tonino Cantelmi attraverso una riflessione che apre uno scenario inquietante: questa società vive con terrore anche la sola ipotesi di cadere in povertà, di non disporre più di alcuni beni, di non essere capace di produrli per il bene dei propri cari. È questa una dimensione antropologica che è parte anch’essa del dibattito sulla povertà umana. Umana, troppo umana.
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