Di fronte al "peccato sociale" si apre la necessità di una "grazia sociale" affidata all’iniziativa umana, che non si riduca alla mera azione politica, ma che consenta a tutti di sperimentare la salvezza che viene dalla grazia. Si tratta di una grande sfida per la teologia del XXI secolo chiamata ad interrogarsi sulle forme che sta assumendo il fenomeno della povertà

Papa latino-americano, “chiesa dei poveri”: come non pensare alla teologia della liberazione? Tra istituzione e movimento radicale sembra pace fatta. Già nel 2004 esce Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa, firmato da Gustavo Gutierrez, esponente storico di quella corrente, e Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il volume è ristampato quest’anno in Italia: ora la povertà va di moda, nel pensiero (e nei fatti).
L’eredità della teologia della liberazione – scrive Müller – è una liberazione della teologia: la chiesa può “emanciparsi dal dilemma dualistico di aldiquà e aldilà, di felicità terrena e salvezza ultraterrena”. Insistere sulla trascendenza porta ad uno spiritualismo disincarnato. Ma battersi solo per eliminare le ingiustizie rischia di politicizzare la fede. Già nelle Scritture si ritrova una “opzione preferenziale” di Dio per l’orfano, la vedova, e i poveri: “è più facile che un cammello…”. Ma la fame umana non si sazia col “cibo che perisce”: ed è inevitabile che i poveri saranno “sempre” con noi. Compito della teologia è, come sempre, trovare un sano equilibrio tra i paradossi della Scrittura.
Resta però una questione aperta, che interroga gravemente l’elaborazione concettuale teologica ed è altresì urgenza del mondo attuale. Lo sviluppo della riflessione sociale ha condotto la teologia cattolica all’elaborazione di una categoria nuova, recepita anche nel Catechismo e nel Compendio della DSC: le “strutture di peccato”. Si tratta di “situazioni sociali o istituzioni contrarie alla Legge divina” (CDSC 400) che, “in un senso analogico, costituiscono un peccato sociale” (Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Reconciliatio et paenitentia, 16 – CCC 1869). Le cause di queste situazioni sono riconducibili agli individui, perché sono “espressione ed effetto di peccati personali” (CDSC 400) ma le conseguenze sono più complesse, perché “rendono ardua e praticamente impossibile una condotta cristiana” (Pio XII, Messaggio radiofonico, 1 Giugno 1941, (5) – CCC 408). Non è sufficiente quindi l’azione del singolo per sottrarsi a queste strutture e giustificarsi. La condotta cristiana diviene infatti “impossibile”. La disuguaglianza tra paesi ricchi e poveri. La precarietà del lavoro. Il debito gravato sui figli. Intere nazioni ed intere generazioni sono colpevoli. Senza che nessuno possa intervenire.
Si presenta una realtà affine a quella espressa dal peccato originale: inevitabilità della colpa ed impossibilità di giustificazione. Non sono stato io, ma sono colpevole. La teologia della liberazione era criticata su questo punto: la politica non potrà mai redimere e realizzare il paradiso in terra. La salvezza viene dalla grazia. Ma le “strutture di peccato” configurano una situazione più complessa: non basta la grazia gratis data, spirituale e personale. La risposta deve essere su un piano materiale e collettivo. È la società, infatti, nella sua organizzazione concreta, a rendere “impossibile” la vita cristiana.
Una esigenza fondamentale della teologia della liberazione è stata quindi recepita, a livello istituzionale, ma le sue conseguenze non sono state ancora adeguatamente affrontate. Le strutture di peccato sembrano rendere necessario un ripensamento della dottrina tradizionale della grazia. Di fronte al “peccato sociale” si apre la necessità – “in senso analogico” – di una “grazia sociale”. Capace di essere materialmente efficace e affidata perciò all’iniziativa umana. Senza però ridursi a mera azione politica, restando quindi grazia. Ecco una sfida per la teologia del XXI secolo. Ecco il piano su cui affrontare seriamente le questioni implicate oggi dalla povertà.
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