Non abbiamo nessuna possibilità di crescere e vivere una vita degna di questo nome senza la relazione con l’altro ed è un destino che ci accompagna fino alla fine dei nostri giorni. Ogni qualvolta, per qualsiasi motivo, ci sottraiamo a questa imprescindibile vocazione per un tempo troppo lungo, prepariamo il terreno per guai seri. Troppo complesso, complicato il nostro mondo interno per reggere il peso di una solitudine che ci può letteralmente schiacciare.
Cos’è, d’altra parte, quella raffica di insistenti “perché” che il bambino scatena appena padroneggia il linguaggio, se non il tentativo di dare un senso al mondo in cui è stato catapultato senza averlo chiesto? Ogni qualsivoglia analisi delle dinamiche sociali e comunitarie, ha qui, a mio avviso il suo punto di partenza: l’importanza della domanda come strumento di conoscenza di sé stessi e del mondo, come espressione della curiosità, del desiderio di capirsi e di capire. E non è un processo per niente facile. Lo dimostra la nostra storia su questo pianeta, il susseguirsi di guerre, di crudeltà e di terrore che hanno caratterizzato l’umano dalle origini ai nostri giorni, anche e in molti casi soprattutto quando esso si è intrecciato con il divino o perlomeno con le concezioni del divino che si sono avvicendati nel corso dei secoli. E sembra che le cose siano state complicate e parzialmente incomprensibili fin dall’inizio.
Tra gli innumerevoli esempi che potremmo utilizzare mi piace far riferimento alle prime righe del primo libro delle Scritture bibliche, Genesi 1,1-3, che hanno, per me, qualcosa d’inquietante. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». È come se lo scrittore biblico nel rapporto con sé stesso ed il mondo circostante, rileva ed esprime una sensazione di smarrimento, se non addirittura di paura, di fronte all’immensamente grande che lo sovrasta. È solo dopo che accade qualcosa di rassicurante. «Dio disse: “Sia la luce”». Noi abbiamo bisogno della luce non solo perché ci aiuta a non vagare nell’oscurità, ma anche perché senza luce non c’è vita. L’alternanza di luce e buio è la condizione non solo metaforica in cui siamo immersi sin dall’inizio e creare legami, camminare insieme è uno dei modi per padroneggiare la paura, dare concretezza storica al mito del giardino di Eden o quantomeno provarci per quel che c’è possibile. Ma le cose sembrano complicarsi ancora una volta.
Non solo l’esordio, ma anche un altro passaggio raccontato dallo scrittore biblico porta con sé qualcosa d’inquietante ed ha la forma di una domanda, dopo un efferato delitto. Sempre Genesi, 4, 8-9: “Un giorno, mentre Caino e Abele stavano parlando insieme nei campi, Caino si scagliò contro Abele suo fratello e lo uccise. Il Signore disse a Caino: “Dov’è tuo fratello? “Non so, – rispose Caino – Sono forse io il custode di mio fratello?”. Poche righe di una potenza straordinaria: il fallimento della parola come strumento della relazione. Possiamo immaginare Caino che non trova le parole per dare espressione al proprio odio, alla propria distruttività verso il fratello che sente come il privilegiato, il prediletto da Dio; e poi la negazione dell’altro come parte di sé ed infine la risposta sotto forma di domanda, in stretta relazione con la negazione, che misconosce il legame con l’altro.
Conosciamo il seguito di questo episodio delle Scritture con Caino che prende consapevolezza del male fatto, della condizione di indifeso alla mercé dell’odio altrui e l’intervento esplicito di Dio che vieta a chiunque di toccare Caino. E come nel passaggio in cui viene posto un limite alle acque del mare, anche in questo caso si ribadisce l’importanza del limite. Non bisogna essere necessariamente credenti, a mio avviso, per apprezzare la bellezza anche nella sua tragicità di questo racconto delle Scritture.
Ma perché questo episodio è così importante per dare fondamento politico al concetto di fratellanza come straordinariamente ribadito dall’ultima enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco? Perché sta nelle vicissitudini della fraternità reale o vissuta nell’immaginario, il primo apprendistato per vivere una fratellanza armoniosa, che non può prescindere dalle vicissitudini dell’ Edipo (mi riconosco in te, ma non sono te; io sono il figlio e tu il genitore e viceversa: tu sei il figlio ed in capo a me , in quanto genitore, sta la responsabilità della tua crescita ) e di Narciso, non nella sua deriva patologica, ma nel riconoscimento di cui abbiamo assolutamente bisogno della nostra individualità, della nostra soggettività, dell’essere voluti bene dalle figure che a nostra volta amiamo e verso le quali in certi frangenti, consciamente ed inconsciamente, “facciamo carte false per non perdere il loro l’amore”. Portiamo dentro di noi, per sempre, l’intreccio tra amore ed odio, gli effetti di traumi che a volte trovano espressione nelle nostre parole, a volte nei lapsus, nei nostri sogni, a volte interferiscono con i nostri affetti senza che riusciamo a mitigarne più di tanto gli effetti.
Insomma siamo chiamati a prestare attenzione al nostro inconscio, a non sottovalutare la sua importanza, a farci amicizia ed è un processo che dura tutta la vita. Passaggi ineludibili per non costruire su un fragile castello di carta un dover essere che nega le leggi dello psichico che lo spirituale, il religioso, l’esperienza di fede non può assolutamente eludere. Non si tratta di operare delle forzate contaminazioni, ma di riconoscere l’autonomia di ambiti diversi che se ben armonizzati valorizzano l’umano nella sua interezza.
Allora si, “Fratelli tutti” come presupposto teologico e culturale in senso ampio, per dare slancio e nuova progettualità politica all’intera triade “Giustizia, Uguaglianza, Fraternità” che tuttavia non basta a sé stessa perché ha bisogno di una quarta sorella, la Misericordia che non è espressione di sterile buonismo, ma colei che ci ricorda che chi è senza peccato scagli per primo la pietra. Un altro modo di dire che nessuno può arrogarsi il diritto di essere giudice implacabile dell’altro ed inchiodarlo permanentemente ai suoi errori. D’altra parte, a pensarci bene, stanno proprio qui i fondamenti dei migliori istituti giuridici che dai tempi di Cesare Beccaria costituiscono un argine alla distruttività insita nell’umano e che le parole di un Papa “venuto dalla fine del mondo” provano a dargli orizzonti lunghi e respiro ampio.
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