Troppo spesso si tende ad attribuire alla parola “compromesso” un’accezione negativa, come se questo termine indicasse necessariamente una svendita dei propri valori di riferimento, magari con l’obiettivo di un tornaconto personale. In realtà – come ci ricorda la sua etimologia, che deriva dal latino compromittere, ovvero “promettere assieme”, impegnandosi vicendevolmente – il volto nobile del compromesso consiste nel suo essere una via d’uscita costruttiva allo scontro tra quanti, pur provenendo da strade diverse, riescono a convenire su una meta comune.
Proprio sulla necessità di affrontare con maturità la fatica del conflitto – inevitabile laddove l’esser noi implica sempre un convenire dei diversi – si è ragionato in occasione del secondo seminario nazionale di Pastorale Sociale della CEI, tenutosi la settimana scorsa a Firenze. Al centro dei lavori due grandi temi: quello del lavoro (che manca) e quello del conflitto (che troppo facilmente degenera in guerra). Il nesso con la crisi della politica è evidente: la disaffezione nei confronti della rappresentanza democratica deriva, da un lato, dalla distanza che la politica sembra aver marcato rispetto ai problemi concreti delle persone, alle loro urgenze, alle loro angosce. Dall’altro dall’incapacità dei partiti di offrire al Paese credibili visioni di futuro; un futuro comune in cui riconoscersi e sul quale scommettere. “Stare assieme” sembra oggi la sfida più ardua. Non solo in ambito politico. Si moltiplicano, infatti, situazioni dolorose nelle quali a prevalere sono le lacerazioni insanabili, nella ricorrente persuasione della loro inevitabilità (e dove le responsabilità sono regolarmente ascritte all’indisponibilità degli “altri”). Così facendo, con inesorabile costanza, viene a erodersi l’autentico senso del noi, vissuto sempre meno come luogo di ricomposizione delle differenze e sempre più come mero luogo identitario, nel quale ritirarsi dopo aver certificato l’irrisolvibilità del conflitto.
La presa d’atto di questa emergenza aiuta a capire che ogni auspicato cambio di rotta non può prendere avvio che da una rinnovata capacità di ascolto, d’incontro fertile delle differenza, evitando che si scavino fossati incolmabili tra le parti e che la logica autoreferenziale dell’io e del mio riduca al silenzio quella del noi e del nostro.
Affinché questa ripartenza possa realizzarsi, occorre dunque coltivare la disponibilità al dialogo che, prima ancora che disponibilità di mediazione con chi, fuori di noi, la pensa diversamente da noi, è capacità di ascolto e gestione matura del conflitto interiore. È questa l’antica lezione di quanti, fin dai tempi della Repubblica platonica, credono nel gioco di specchi tra il buon governo dell’anima e il buon governo della città, nella persuasione che solo coloro che hanno saputo far pace dentro se stessi, sperimentando la fatica di una ricomposizione unitaria delle diverse pressioni cui tutti siamo soggetti, possono credere davvero nel valore della riconciliazione delle differenze attorno ad un progetto comune (ovvero capace di accomunare, anziché limitarsi a rinforzare logiche identitarie).
Oggi, più che mai, dobbiamo alimentare la fiducia nella possibilità di stare assieme, di non cedere alla logica dei “passaggi obbligati” che, giustificando il ripiegamento nelle proprie convinzioni, non permette alle situazioni conflittuali di maturare in novità generative, condannandole ad un progressivo movimento di disgregazione. È innegabile, infatti, che la dialettica politica contemporanea tenda, con avvilente facilità, alla radicalizzazione dei conflitti tra parti, producendo un volume di “sospetto sulle intenzioni” che alimenta la costruzione del “nemico” molto più che non il confronto dialettico delle proposte e delle ragioni. Ancora una volta, però, non si tratta di evitare il conflitto, ma la sua radicalizzazione. Occorre, in altre parole, ripensare l’essenza del politico a partire da una concezione “adulta” del conflitto.
Questo conduce, innanzi tutto, a ripensare la dimensione politica come spazio di libertà e di deliberazione, anziché come luogo di mera contrapposizione muscolare. In secondo luogo, tale persuasione circa l’autentica dimensione del politico deve sollecitare una riflessione sul senso della democrazia, evitando di pensarla solo come luogo di neutralizzazione, di procedure e di garanzie, per farla maturare in un reale spazio di confronto – anche duro, ma nel rispetto reciproco – in vista dell’individuazione di un comune che accomuni.