Il confronto fra proporzionale e maggioritario può essere letto anche come una sfida a ripensare il rapporto fra identità, partecipazione politica e cittadinanza, affrontando così un nodo culturale cruciale per società caratterizzate in misura crescente dalle dinamiche del pluralismo. Pietro Scoppola, nelle ultime pagine delle sue Lezioni sul Novecento, sottolineava come il meccanismo maggioritario imponesse il superamento della piena sovrapponibilità fra posizione culturale e scelta politica: culture diverse devono convivere in una scelta comune e il ritorno al proporzionale, proprio perché sottrae all’obbligo di questo confronto, può apparire un’opzione ad un tempo semplice e rassicurante rispetto a quella di seguire fino in fondo il percorso di un «ridimensionamento delle appartenenze di parte rispetto a quello realizzato nel momento fondativo della nostra democrazia». Nella scelta della legge elettorale sono in gioco anche le modalità di ricostruzione del senso di una cittadinanza comune e questa è una questione eminentemente etica, oltre che politica.
C’è un aspetto, tuttavia, che non viene adeguatamente tematizzato in questo dibattito. L’opposizione all’Italicum e alla stessa riforma costituzionale, concepiti peraltro come parti di un unico e coerente disegno, è stata spesso motivata – a torto o a ragione – con la necessità di arginare la logica dell’uomo solo al comando. Sarebbe tuttavia un grave errore interpretare la sconfitta di Matteo Renzi nel referendum e il possibile ritorno ad una legge elettorale basata sul metodo proporzionale (eventualmente corretto, ma non stravolto per favorire la governabilità) come la soluzione di un problema che non è quello di una svolta plebiscitaria e “monarchica” potenzialmente fatale per la democrazia, ma – più concretamente e semplicemente – quello delle forme e del ruolo della leadership in una politica divenuta “liquida” non meno della società che la esprime e che da essa dovrebbe essere governata.
Una maggiore “personalizzazione” è la conseguenza probabilmente inevitabile della necessità di ricostituire in questo contesto il circuito di fiducia e decisione. La fiducia che sostiene l’idea di rappresentanza non nasce più dal riferimento ad appartenenze forti e identità collettive stabili (i grandi partiti della prima repubblica) e tende così a concentrarsi nell’individualità che assicura la decisione e ne assume, senza mediazioni, la responsabilità: il volto del potere diventa il volto del leader e la competizione elettorale diventa una competizione fra leader, rispetto alla quale il richiamo ai programmi rischia purtroppo di valere quello ai contenuti della riforma nella recente campagna referendaria. Il leaderismo – questo è il punto decisivo – è pienamente compatibile con un sistema elettorale proporzionale (anche se in Italia la tendenza si è fortemente accentuata con il passaggio al maggioritario) e passa per segnali come la sostituzione dei simboli di partito con il nome appunto del leader sulle schede elettorali.
Per formare il governo sarà probabilmente necessario, dopo il voto, un negoziato fra questi leader, ma ciò non cambia la natura del rapporto fiduciario. Sull’altro “fronte”, nemmeno una legge con un significativo premio di maggioranza come è l’Italicum, nel contesto di una forma di governo parlamentare, è necessariamente ancorata ad una visione leaderistica. La orienta inequivocabilmente a questa prospettiva il comma 8 dell’articolo 2, che prevede, per i partiti o gruppi che si candidano a governare, l’obbligo di dichiarare nel loro programma «il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica». Un obbligo il cui significato è rafforzato dal divieto di apparentamento di cui alla lettera f) del comma 1 dell’articolo 1.
Per chi ritiene che la leadership forte sia la naturale evoluzione della democrazia nel ventunesimo secolo questo non è evidentemente un problema. Al termine del mandato, gli elettori potranno scegliere un altro “capo”. Chi, pur nella consapevolezza delle dinamiche che spingono in questa direzione, ha invece a cuore un’idea diversa di rappresentanza e partecipazione dovrebbe provare ad indicare altre soluzioni. Su due, in particolare, vale probabilmente la pena di riflettere, anche se non sembrano destinate a guadagnare spazio. Il collegio uninominale, che di per sé – come è opportuno ricordare – non garantisce né la rappresentanza né la governabilità, è un meccanismo che potenzialmente valorizza il rapporto fiduciario su base personale e non più o non soltanto “ideologica”, ma lo fa incardinandolo nel territorio e creando così una vera competizione a più livelli, che allenerebbe fra l’altro i cittadini ad una concezione “poliarchica” della democrazia. La presentazione di una “squadra” e non solo del nome del “capo”, ferme restando le prerogative del Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92 della Costituzione, consentirebbe agli elettori di esprimere una fiducia che, in quanto condivisa, aiuterebbe a riportare il ruolo del Presidente del Consiglio a quello di un primus inter pares, evitando che la scena anche mediatica venga occupata in modo pervasivo da un solo volto e da una sola voce.
L’articolo 49 della Costituzione invita tutti i cittadini a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» e da questa responsabilità nasce il loro diritto di associarsi in partiti. Dalla repubblica dei partiti, per citare ancora Scoppola, si esce passando appunto alla repubblica dei cittadini. Non alla repubblica dei “capi”.