In ogni caso, quel che è certo, è che l’intervento della Corte, come da alcuni auspicato già prima della sua pronuncia e come appare ora confermato anche alla luce delle motivazioni, non è certo tale da definire un approdo automatico, costituzionalmente obbligatorio, verso un sistema elettorale di tipo proporzionale.
L’intervento della Corte, incisivo dunque nella parte riferita all’eliminazione del ballottaggio, quanto meno per come esso era stato strutturato nell’Italicum, ma non tale da operare un sostanziale smantellamento dell’impianto di fondo della legge n. 52 del 2015, apre quindi la strada, come era naturale attendersi, al possibile successivo intervento del Parlamento.
Vi è da chiedersi, tuttavia, se tale intervento sia indispensabile o meno al fine di omogeneizzare i due sistemi elettorali oggi esistenti, ovvero quello previsto per l’elezione del Senato e conseguente all’intervento della Corte costituzionale nella decisione 1/2014 e quello per la Camera, così come ricavabile dopo l’ultimo intervento censorio dello stesso giudice delle leggi con la sentenza n. 35 del 2017. Come ammonisce infatti la Corte nella parte finale della sua decisione, essa “non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum ex art. 138 Cost. del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizioni e funzioni delle due Camere elettive”. Da tale constatazione il giudice delle leggi fa discendere la conseguenza che in un tale contesto “la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee”.
A ben vedere, dunque, quel che la Corte richiede – e che discende dalla parità di posizioni di Camera e Senato, in ordine in particolare al rapporto fiduciario ed alla funzione legislativa – non è quindi, la presenza di sistemi elettoriali assolutamente identici, ma il risultato che tali sistemi, anche ipoteticamente diversi, possano produrre e che, auspicabilemnte, dovrebbero esser tali, infatti, da non determinare situazioni di ingovernabilità che discendano dalla presenza di maggioranze disomogenee e conflittuali. La Corte tuttavia, non appare perentoria nel richiedere tale possibile risultato, dal momento che si limita ad esigere che i sistemi elettorali introdotti non siano tali da ostacolare il formarsi di maggioranze omogenee. Senza ulteriormente addentrarci in tali valutazioni (sia consentito rinviare, a proposito, a M. G. Rodomonte, L’Italia dopo il referendum del 4 dicembre 2016: tra rischi di ritorno al passato, delegittimazione politica e prospettive future), appare tuttavia evidente come le possibili soluzioni siano diverse.
Il legislatore potrebbe infatti ben decidere di non intervenire, a fronte di formule elettorali per Camera e Senato risultanti da decisioni della Corte necessariamente autoapplicative e che non escludono certo la possibilità di avere esiti elettorali non contraddittori. Il legislatore, tuttavia, potrebbe anche intervenire per modificare le due formule come attualmente disegnate all’esito dell’intervento del giudice costituzionale, nell’ambito di quell’ampia discrezionalità che lo contraddistingue con riferimento in particolare alla definizione dei sistemi elettorali, come più volte ribadisce lo stesso giudice costituzionale nella decisione in commento. In tal caso è evidente come la possibilità di attingere dall’ampio ventaglio di possibilità offerte dalle diverse formule elettorali non manca e, soprattutto, la scelta, sempre nel caso si intenda costruire qualcosa in più rispetto alle indicazioni passate e future della Corte, dovrebbe essere tale da consentire una maggiore semplificazione del quadro politico, proprio tenendo conto dell’eguale “pregio costituzionale” della governabilità rispetto all’esigenza di rappresentatività (cfr. A. Morrone), attraverso meccanismi in grado di intervenire dinamizzando quel quadro al fine anche di favorire alleanze, costringendo appunto a guardare necessariamente alla semplificazione più che all’isolamento e alla contrapposizione e, in ultima analisi, ad una frammentazione politica che ben poco può giovare al buon governo del Paese.
Vi è infine un aspetto che non richiedeva di essere affrontato dalla Corte costituzionale ma che dovrebbe, invece, essere necessariamente, e senza ulteriori indugi, affrontato e risolto – questo si – dal Parlamento. Si tratta della necessità di prevedere anche per la legge elettorale del Senato, come già stabilito nell’Italicum, norme in grado di garantire la parità di accesso di donne e uomini alle cariche elettive. Come è noto, infatti, solo tardivamente, ovvero solo con l’Italicum e dunque con una legge recentissima e mai applicata, si è provveduto ad introdurre anche nelle elezioni per la Camera del deputati, quanto già previsto per gli altri livelli territoriali di governo, da quello comunale a quello regionale; ovvero un meccanismo in grado di assicurare, secondo quanto stabilito dall’art. 51 della Costituzione, la possibilità di accedere per i cittadini dell’uno e dell’altro sesso “alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”. La legge 52/2015 ha così previsto che nelle liste i candidati siano presentati in ordine alternato per sesso; che i capilista dello stesso sesso non possano essere più del 60% del totale in ogni circoscrizione e che, nel complesso delle candidature circoscrizionali di una lista, nessun sesso possa essere rappresentato in misura superiore al 50%.
Infine, come negli altri livelli di governo, si prevede un voto di preferenza, declinato nella versione della doppia preferenza di genere. Come è noto tale previsione veniva originariamente accompagnata da quella contenuta nell’art. 55 del testo della Costituzione riformato e bocciato al referendum del 4 dicembre scorso. Secondo quanto previsto infatti dal secondo comma di quell’articolo, così come introdotto dal ddl “Renzi-Boschi”, “le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. Appare evidente la potenziale incisività di quella previsione e le novità che essa avrebbe potuto comportare nell’ambito della legislazione elettorale. Stando infatti alla lettera della previsione in oggetto ad essere richiesta non sarebbe stata una semplice parità dei punti di partenza, già stabilita dall’art. 51 della Costituzione, ma l’obbligo di un risultato consistente nell’effettiva equilibrata presenza di donne e di uomini nell’organo rappresentativo, intervenendo quindi, come è stato a ragione evidenziato, nella struttura stessa della rappresentanza (cfr. B. Pezzini, Verso una rappresentanza fondata sul genere).
Caduta quella previsione, che sembrava riecheggiare le pronunce del giudice amministrativo in ordine alla equilibrata presenza di donne e uomini negli organi di governo, non bisogna però mancare di sottolineare come non venga certo meno il principio posto dall’art. 3 Cost. in ordine alla pari dignità sociale e all’eguaglianza senza distinzioni di sesso, né la sua pratica declinazione nell’art. 51 Cost. con riferimento alla parità di accesso alle cariche elettive ed il fatto che tale obbiettivo debba essere l’oggetto di interventi promozionali da parte della Repubblica. Secondo, infatti, una interpretazione ampiamente condivisa e certamente avallata anche dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. n. 49 del 2003, quella previsione sarebbe da ritenersi non solo direttamente applicabile, ma anche tale da comportare un doveroso intervento del legislatore al fine di prevedere azioni promozionali nella legislazione elettorale.
In definitiva non può, quindi, che ritenersi auspicabile un intervento del legislatore proprio al fine di “omogeneizzare” i due sistemi elettorali vigenti con riferimento all’introduzione, anche nella legge elettorale per il Senato, di formule promozionali in grado di garantire quanto meno quel che oggi il testo costituzionale prevede e cioè la parità dei punti di partenza di entrambi i sessi alle cariche elettive, intervenendo quindi, infine, nella fase, che precede il voto, della definizione delle candidature.