Non vale a diluire questo impegno la precisazione che ciò non esclude una più ricca articolazione di responsabilità e autonomie ai livelli diversi e subordinati di organizzazione della collettività, alla quale guarda evidentemente la curvatura in senso “federalista” dell’art. 117 della Costituzione realizzata con la riforma del 2001, che ha fatto dell’istruzione materia di "legislazione concorrente" fra Stato e Regioni. La Costituzione parla d’altronde di scuole statali, che è aggettivo perfino più forte e unificante di pubblico. E questa preoccupazione appare ribadita dall’indicazione dell’obbligo, per le scuole non statali che chiedono la parità, di assicurare ai loro alunni, pur negli spazi di libertà ad esse garantiti, «un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali».
La domanda alla quale rispondere è dunque molto semplice: questo fondamentale principio di uguaglianza, completato nell’art. 34 dalla garanzia per i capaci e meritevoli di poter raggiungere «i gradi più alti degli studi» anche se privi di mezzi, è rispettato o no nell’Italia di oggi? E ancora: la scuola funziona o no da riduttore delle asimmetrie economiche e sociali che ancora persistono (o si sono addirittura aggravate) e che sono evidentemente un grave ostacolo alla realizzazione delle “pari opportunità”?
La dura concretezza dei numeri offre una risposta netta a questi interrogativi. La scuola appare impotente di fronte alle disuguaglianze che feriscono e umiliano il paese e che essa si limita a registrare. Le disuguaglianze che da sempre rendono più duro il cammino dei poveri e di chi parte comunque da posizioni più difficili. Il fenomeno dell’abbandono scolastico riguarda meno del 3% dei figli di laureati e meno del 4% dei figli di persone collocate nel segmento apicale delle professioni qualificate, ma sale intorno al 30% quando i genitori si sono fermati alla scuola dell’obbligo e alla base della piramide del mondo del lavoro. Ma anche le disuguaglianze che nascono nei territori.
L’indagine OCSE-PISA del 2012 ha registrato variazioni drammatiche nel livello medio di rendimento degli studenti. Rispetto alle competenze nell’ambito della lettura, per esempio, si oscilla fra il valore di 521 raggiunto in Lombardia, Veneto e nella Provincia Autonoma di Trento e il valore di 434 della Calabria. Il primo dato è nettamente superiore alla media OCSE e colloca i fortunati studenti di queste aree del paese ai primi posti nel mondo. Il dato della Calabria si può confrontare in Europa solo con quelli di Bulgaria e Romania.
Questa è l’iniquità nella quale siamo impantanati. Su questi dati, più che sull’enfasi di epocali riforme e ripartenze, si misurerà la qualità degli interventi. L’Italia, insieme al Regno Unito e agli Stati Uniti, è uno dei paesi che spiccano fra quelli considerati più avanzati per la “continuità intergenerazionale” della condizione economica. Una marcata “ereditarietà” delle professioni e dei redditi più elevati è il segnale inequivocabile della persistenza di crepacci di disuguaglianza che la scuola dovrebbe almeno contribuire a ridurre. Sono questi gli indicatori da considerare, perché lo Stato che non “cambia il verso” di queste tendenze tradisce il suo dovere di fare della res publica una realtà di vita e di speranze davvero una e indivisibile.
La sicurezza degli edifici e la serenità di chi ci lavora sono naturalmente obiettivi importanti, ma non bastano, da soli, a risolvere questo problema, così come non basta aumentare il numero degli insegnanti per garantire la qualità del loro lavoro. La promessa di una buona scuola è sempre una premessa apprezzabile. Si attendono – e si giudicheranno – i fatti.