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Il sistema dell’Unione non è “terzo”. Esso interpreta, è diretto, guidato, direttamente influenzato dalle posizioni dei Paesi membri che, sulle cose importanti, decidono sempre all’unanimità come Consiglio. L’Unione è ostaggio, oggi, di 27 governi nazionali indecisi a tutto, che godono del miglioramento oggettivo delle condizioni di vita che nel corso di questi ottanta anni si è avuto nel territorio dell’Unione, ma non accettano di bere fino in fondo l’amaro calice della presa d’atto che non possono fare tutto da soli. Se si chiede “più Europa”, cioè che l’Unione sia più efficace in ambiti in cui gli stati membri faticano a gestire l’esistente, si devono dare all’Unione le competenze per intervenire…

Il titolo potrebbe ben rappresentare la natura dell’Unione europea oggi. Una entità che spesso è vittima di generalizzazione, sulla quale si scrive molto ma della quale si sa molto poco – e spesso le persone che scrivono su di essa coincidono con quelle che la conoscono meno.

Un soggetto istituzionale che non appassiona. Una volta un collega, importante storico delle relazioni internazionali, mi confidò: “non mi piace fare il corso di storia dell’integrazione europea: è una storia troppo barbosa; scorre poco sangue”. Si sa, gli storici – diceva Marc Bloch – sono come l’orco delle favole, sono attratti dal sangue umano; ma forse è esagerato definire la storia della costruzione europea come “barbosa”. Certo non è l’histoire bataille cara a generazioni di storici classici, ma riserva anche delle sorprese. Soprattutto oggi che l’UE sta uscendo, faticosamente, con molti ripensamenti e tentennamenti, dalla sua fase lunga di una costruzione puramente economico-commerciale e, grazie purtroppo alla pandemia di Covid-19 e alle tensioni e conflitti internazionali, viene chiamata con più forza a giocare un ruolo politico, mai in maniera così veemente.

Pensiamoci un attimo: nel 2018 niente faceva presagire che, dopo aver con difficoltà affrontato le conseguenze del crac economico del 2008 (crisi non europea), l’Unione si sarebbe dotata di strumenti finanziari “sovrani”, avrebbe emesso debito pubblico garantito dall’Unione stessa. Si trattava di un tabù nelle riunioni del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri economici e finanziari (l’”Ecofin”), conoscendo benissimo come la dirigenza tedesca vedeva tale ipotesi: semplicemente come il fumo negli occhi.

Eppure, la pandemia e il lock down hanno compiuto il miracolo di modificare posizioni politiche e mutare l’avviso dei dirigenti dei Paesi dell’Unione. Quando si è trattato di discutere un colossale piano di aiuti europeo post-pandemico, per complessivi 750 miliardi di euro, che si sommavano alla prospettiva di bilancio 2021-2027 che ammontava già a 1.074 miliardi, la Commissione europea e il Parlamento europeo si sono imposti sul Consiglio dei riottosi ministri nazionali, e abbiamo avuto il Next Generation EU, in gran parte finanziato da emissioni di debito pubblico europeo.

Una cosa simile è successa con l’inasprirsi del conflitto arabo-israeliano dopo l’ottobre 2023 e soprattutto con l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, provocata da una improvvisa aggressione russa su larga scala. Subito voci autorevoli hanno lamentato l’assenza di una politica estera europea e di una difesa europea (francamente più la seconda che la prima!) mostrando però di avere una memoria tragicamente corta.

Il tema della difesa europea e della politica estera dell’Unione è stato sempre un punctum dolens nella storia dell’integrazione del continente. Nel 1950-54, sulla scia di un’altra crisi (la guerra di Corea) si era discusso attivamente della prospettiva di un esercito europeo costituito tra i sei Paesi che già avevano dato vita alla CECA (la prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio). Lunghe discussioni e ipotesi ardite si erano rincorse per quattro anni; Alcide De Gasperi aveva quasi fatto il miracolo, con Paul-Henri Spaak e Konrad Adenauer, di far nascere uno strumento militare dotato di una “testa” politica. Poi, la morte di Stalin, e le preoccupazioni francesi per l’impero coloniale in bilico, soprattutto in Indocina, avevano rimesso tutto in discussione: Parigi aveva detto “no” a un progetto apertamente federale e di difesa (e politica estera) continentale non si era parlato più, se non come appendice di una struttura atlantica già esistente dal 1949.

Oggi non si tratta di scervellarsi sulla prospettiva di un esercito europeo, di una difesa comune, ma riflettere come sia possibile che i 27 Stati dell’Unione continuino a pretendere di avere una loro politica estera “nazionale” e non necessariamente coordinata con quelle degli altri Stati dell’Unione. Siamo un gigante economico composto da Stati che, come bambini, si baloccano col ricordo di passate grandezze (e passate tragedie) elevate e motivo di orgoglio perenne. Siamo circondati, letteralmente, da entità di scala continentale (Cina, Russia, Stati Uniti) che in più modi dimostrano di volere mantenere gli Stati europei divisi e controllabili e intanto riluttiamo di fronte alla prospettiva dell’unica arma che l’Europa economica e commerciale ha per contare sullo scenario internazionale: parlare con una voce sola.

27 apparati militari costano troppo, molto più del singolo apparato militare statunitense, ma hanno una efficienza enormemente minore e quasi risibile. Le economie di scala, spesso erette a dogma indiscutibile in ambito europeo quando si parla di agricoltura, ambiente, mercato unico, diventano un altro tabù se si tratta di mettere insieme gli strumenti di difesa; 27 diplomazie nazionali, spesso solo roccaforti di privilegi amministrativi e carrieristici diventano bandiere di orgoglio nazionale anche se ormai dipendono, per molti aspetti fondamentali, da ciò che i 27 governi decidono insieme a Bruxelles. Non si può tollerare questa imbarazzante ipocrisia vanitosa.

Gli stati pretendono di continuare a fare finta di essere sovrani anche se, di fatto, hanno semplicemente perso sia gli strumenti, sia la dimensione, per essere globali. E questo vale per ognuno degli Stati membri dell’UE, dalla Germania a Malta.

E qui si apre un altro capitolo, fondamentale, nella percezione pubblica di quella che chiamiamo Unione europea. Spesso ci si riferisce a essa, nel discorso politico, come se si trattasse di un soggetto “terzo”, un ente prepotente e vessatore che decide, dispone, impone, con i poveri governi nazionali che spesso sono costretti a chinare il capo, a dire “sì”, ad accettare ciò che talora viene presentato come inaccettabile, come un vero e proprio diktat.

Quanto si sorprenderebbe il cittadino medio se sapesse che il processo decisionale dell’Unione è nelle ferme mani dei 27 governi nazionali che mantengono i loro rappresentanti – i ministri nazionali – nel Consiglio. Il sistema dell’Unione non è “terzo”. Esso interpreta, è diretto, guidato, direttamente influenzato dalle posizioni dei Paesi membri che, sulle cose importanti, decidono sempre all’unanimità come Consiglio. Il ministro che lamentandosi in TV presenta posizioni che possono essere impopolari dicendo “ce lo chiede l’Europa”, intendendo con tale espressione una volontà alta e indiscutibile, è lo stesso ministro che, all’interno del Consiglio o ha votato a favore di tale posizione oppure non ha fatto valere in maniera efficace la sua opposizione. Non è quindi “l’Europa” che chiede qualcosa ai cittadini; è il potere politico dei 27 Paesi europei, cioè i governi in carica, che si sono messi d’accordo su quella decisione.

Questa è una cosa francamente sconcia e alla quale bisogna mettere un freno. La Commissione europea non decide nulla senza il consenso, preventivo e successivo del Consiglio; il Parlamento europeo può certo dire la sua, votare pro o contro, aprire una crisi sulla decisione tale o tal’altra col Consiglio, ma alla fine il Consiglio, all’unanimità, può approvare qualsiasi misura e superare qualsiasi opposizione.

Allora siamo di fronte a una tigre di carta travestito da alibi. L’Unione è ostaggio, oggi, di 27 governi nazionali indecisi a tutto, che godono del miglioramento oggettivo delle condizioni di vita che nel corso di questi ottanta anni si è avuto nel territorio dell’Unione, ma non accettano di bere fino in fondo l’amaro calice della presa d’atto che non possono fare tutto da soli. Se si chiede “più Europa”, cioè che l’Unione sia più efficace in ambiti in cui gli stati membri faticano a gestire l’esistente, si devono dare all’Unione le competenze per intervenire, lasciando agli stati membri la gestione di quegli aspetti di governo che possono gestire meglio a livello locale e nazionale. Si chiama federalismo, e non è una invenzione recente: data dal 1788, anno della prima costituzione federale nata alla Convenzione di Filadelfia e ancora in vigore come Costituzione degli Stati Uniti d’America. Più prossima a noi abbiamo anche l’esperienza del federalismo svizzero.

Insomma, la strada la conosciamo, ne sappiamo caratteristiche, rettilinei e svolte: dobbiamo solo imboccarla.

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