A due giorni dal voto dell’8 e 9 giugno che ci restituirà il quadro politico dell’Europa per i prossimi 5 anni, mi chiedo, se aver contribuito a rendere forte una chiave narrativa, utilizzata da noi europeisti militanti e dalle istituzioni, legata al valore normativo dell’integrazione europea, non abbia spostato il focus, dalla dimensione politica del sogno europeo ad una costruzione che crea utilità pratica e marginale. Come europeisti dobbiamo imparare questa lezione e declinarla al futuro. La nostra generazione è quella che ha ereditato un patrimonio inimmaginabile fino ad un secolo fa, una comunità politica che, nonostante le differenze, ha scelto lo Stato di diritto, la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani come valori comuni e misura della nostra convivenza civile. Adesso la sfida è quella di confrontarsi da pari con chi è fuori dai confini europei senza rinnegare la nostra storia.

A due giorni dal voto dell’8 e 9 giugno che ci restituirà il quadro politico dell’Europa per i prossimi 5 anni e dopo tanti chilometri percorsi per incontrare le nostre associazioni in Italia e all’estero che hanno promosso iniziative di informazione, mobilitazione e coinvolgimento delle persone sul decisivo appuntamento elettorale che abbiamo davanti, c’è una riflessione che è già possibile fare anche senza avere davanti ancora exit poll, proiezioni o percentuali.

La narrazione più presente tra le persone rispetto ai risultati dell’integrazione europea, del vivere comunitario, della necessità di fronte alle sfide globali di una comunità politica ed economica (“unità nella diversità”) è pragmatica, burocratica, lontanissima dalla visione dei padri fondatori che immaginavano l’Europa come un impareggiabile intreccio di interessi che rende la guerra materialmente impossibile al prezzo di continui negoziati, su un numero crescente di argomenti, tra un numero crescente di paesi. È la regola d’oro di Jean Monnet: “Mieux vaut se disputer autour d’une table que sur un champ de bataille” (“Meglio litigare intorno a un tavolo che su un campo di battaglia”).

Provo a fare un esempio candido di qual è la percezione dell’utilità dell’Unione Europea di fronte agli scenari economici, sociali e geopolitici di oggi: nell’elenco dei risultati di questi anni di un continente che è passato attraverso il COVID-19, i nuovi conflitti ai confini dell’UE, le disuguaglianze sempre più laceranti, pare quasi che il regolamento sul roaming, ossia il miglioramento del regime grazie al quale i viaggiatori nell’Ue possono effettuare chiamate, inviare messaggi e navigare in internet all’estero senza costi aggiuntivi, che rinnova la scelta del 2017, sia uno dei pochi risultati conosciuti e apprezzati. Ricorre spesso questo aspetto, specialmente quando ho avuto il piacere di accompagnare i ragazzi al Parlamento europeo per le visite guidate a Strasburgo e Bruxelles.

Naturalmente non voglio svilire un risultato importante che sta nel solco delle azioni legate alla libera circolazione delle persone nello spazio europeo, dell’armonizzazione delle tariffazioni per i servizi in Europa e contribuisce al sentiment positivo rispetto ad una piena cittadinanza europea.

Mi chiedo, però, se aver contribuito a rendere molto forte una chiave narrativa, utilizzata da noi europeisti militanti e dalle istituzioni, legata al valore normativo dell’integrazione europea, non abbia spostato il focus, in modo (speriamo) reversibile, dalla dimensione politica del sogno europeo ad una costruzione che crea utilità pratica e marginale.

È una constatazione sulla quale sarebbe utile, secondo me, aprire una riflessione profonda: quando abbiamo ceduto all’idea di rappresentare l’Europa solo come uno strumento normativo, freddo e meramente economico? Non riusciamo a trasmettere la vera essenza di una scelta rivoluzionaria che ha cambiato la storia del mondo. Ci siamo limitati ad un racconto stanco, retorico da risultare quasi meccanico e invariabile nel tempo.

Questa campagna elettorale probabilmente è stato il frutto di questa narrazione perché, al netto di poche eccezioni, tutto il dibattito si è sviluppato non sulla visione di cosa significherà un’Europa unita di fronte alle transizioni della storia che sta affrontando, ma sulla marginalità o meno dell’Italia in questo processo.

In ogni slogan sembra che il protagonista sia il nostro paese quando il destino di ognuno di noi è legato a quello che saremo in grado di esprimere come europei.

Sul tema della pace, ad esempio, abbiamo ribaltato i concetti alla base delle istituzioni europee: se Monnet e Schuman posarono la prima pietra dell’Europa cercando una soluzione ai conflitti che avevano flagellato il continente, mettendo in comune tra i Paesi il bene più prezioso in quel contesto storico, oggi la soluzione alle guerre che lambiscono i nostri confini è armarci. Lo spot elettorale di Ursula von der Leyen in elmetto e giubbotto antiproiettili, candidata alla guida della Presidenza della Commissione Europea, indicata dal PPE, è molto chiaro “Scegli un’Europa forte che sappia agire”. Quasi una minaccia.

La visione politica, quindi, della famiglia politica numericamente più importante del Parlamento Europeo sul nostro ruolo nelle relazioni internazionali e sulla capacità di costruire una comunità mondiale che si riconosce è quella di arrendersi. Arrendersi all’ineluttabilità della guerra, all’automatismo delle escalation militari, alla nostra incapacità di giocare un ruolo di diplomazia e mediazione nel mondo nonostante la rilevanza del nostro mercato unico europeo (20% del PIL mondiale e 450 milioni di persone).

Produrre un PNRR europeo militare che indebiterà le prossime generazioni per una difesa europea lontana dall’idea di Jean Monnet, ovvero una comunità europea di difesa (CED) in cui l’esercito sarebbe stato davvero comune come la politica estera continentale, rappresenta tutta la miopia di una politica piegata sugli interessi nazionali e che non ha la capacità di avviare processi lunghi ma necessari.

Claudio Sardo, curatore del libro che ha raccolto i discorsi più importanti del Presidente del Parlamento europeo David Sassoli (La saggezza e l’audacia), sempre vivo nei nostri ricordi, “La saggezza e l’audacia; discorsi per l’Italia e per l’Europa” ci dice come David riuscisse a tenere insieme la dimensione della concretezza e la dimensione valoriale della politica: senza un orizzonte, un’idea di mondo chiara per quale impegnarsi la politica si riduce alla logica del fare, del rincorrere, mentre senza una ricaduta concreta dell’agire politico il rischio è di essere utopici,  lontani dalla vita delle persone.

Noi europeisti dobbiamo imparare questa lezione e declinarla al futuro. La nostra generazione è quella che ha ereditato un patrimonio inimmaginabile fino ad un secolo fa, una comunità politica che, nonostante le differenze, ha scelto lo Stato di diritto, la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani come valori comuni e misura della nostra convivenza civile. Adesso la sfida è quella di confrontarsi da pari con chi è fuori dai confini europei senza rinnegare la nostra storia.

La complessità degli anni che abbiamo di fronte porta con sé l’esigenza non solo di politici che si mettano all’altezza di questo compito, ma di una opinione pubblica europea che spinga in questa direzione, consapevole che la scelta che faremo tra integrazione e isolamento nel rapporto tra i paesi sarà decisiva per la nostra vita. Questo compito è anche delle associazioni che fanno del rafforzamento della cittadinanza europea un obiettivo strategico. Per questo motivo l’attivazione di meccanismi normativi che facilitano l’associazionismo transnazionale come ha fatto il Parlamento in questa fine di legislatura è un primo passo in avanti utile a raggiungere un orizzonte ambizioso, quello di una voce comune europea della società civile che vuole l’Europa forza di pace nel mondo.

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