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L’Europa è il nostro presente e il nostro futuro: “Senza Europa diventeremmo sudditi” ripeteva David Sassoli. I miti nazionalisti vengono ancora coltivati e rielaborati in chiave propagandistica. Servono per catturare consensi sul piano interno, sfuggendo alla complessità e semplificando il messaggio fino a banalizzarlo. Le guerre alle porte di casa, anzi di fatto dentro la vita dell’Europa, pongono oggi domande incalzanti. Senza pace la democrazia fatica a diventare esempio, a riprodursi, a migliorarsi. La democrazia si può allargare con la coerenza, con la fedeltà allo Stato di diritto, con lo sviluppo senza sfruttamento. Ma la possibilità, la speranza di un rilancio europeo non sono prive di fondamento. Perché l’Europa è più dell’Unione europea. L’Europa è più dell’euro. L’Europa è più dei confini caduti grazie agli accordi di Schengen. L’Europa è una civiltà, un grande patrimonio etico e sociale. Nella dimensione culturale e spirituale europea ha preso forma la nostra idea di umanità, di primato della persona, di libertà della coscienza, di trascendenza, di uguaglianza tra gli esseri umani.

L’Europa è il nostro presente e il nostro futuro. Anche se incompiute e talvolta inadeguate, anche se i contrasti tra i governi nazionali ne frenano l’azione, le istituzioni comunitarie sono la sola chance che hanno i cittadini europei per dire qualcosa al mondo. Per difendere ciò che posseggono di più prezioso. Per affrontare la sfida ambientale, quella sociale, quella tecnologica. Per evitare di restare schiacciati dai mutamenti e dai conflitti geopolitici, dalle dinamiche dei mercati globali, dai nuovi poteri economici e finanziari sovranazionali.

“Senza Europa diventeremmo sudditi” ripeteva David Sassoli, grande presidente del Parlamento europeo.

I miti nazionalisti vengono ancora coltivati, e rielaborati in chiave propagandistica. Servono per catturare consensi sul piano interno, per semplificare i messaggi fino a banalizzarlo. Ricorrono slogan regressivi come “più Italia, meno Europa”. O “più Germania, più Francia, più Olanda…” Ma neppure chi si fa paladino dei neo-nazionalismi correnti crede davvero che su quella strada si possa ottenere qualcosa. Si può cogliere l’emozione del momento, sintonizzarsi sulle paure, agitare spettri per avere qualche tornaconto elettorale ma anche i cosiddetti sovranisti, nella concreta vita istituzionale europea, puntano a condizionare il merito delle scelte politiche, a imprimere su di esse il loro segno, perché sono quelle politiche a comporre il quadro nel quale necessariamente operano i governi nazionali.

Le guerre alle porte di casa, anzi di fatto dentro la vita dell’Europa, pongono oggi domande incalzanti. Che riguardano le istituzioni, e la loro credibilità. Serve una politica estera europea, più consistente e coesa di quella che attualmente l’Unione è in grado di esprimere. All’interno di questa va inserita la difesa comune. Ma tutto ciò sarà possibile solo se l’integrazione procederà anche sui grandi capitoli sociali, economici, civili.

Ci sono ritardi da colmare. Ed egoismi da superare. Ma la possibilità di un rilancio europeo non è priva di fondamenta politiche, civili, etiche, culturali.

Perché l’Europa è più dell’Unione europea. L’Europa è più dell’euro. L’Europa è più dei confini caduti grazie agli accordi di Schengen. L’Europa è una civiltà, un grande patrimonio etico e sociale. Nella dimensione culturale e spirituale europea ha preso forma la nostra idea di umanità, di primato della persona, di libertà della coscienza, di trascendenza, di uguaglianza tra gli esseri umani.

Sin dalle prime radici nell’Ellade, nel mondo romano, nella cristianità medioevale fino al Settecento, quando l’idea di Europa assume una più compiuta dimensione civile e morale, essa non definisce i propri confini in modo netto e stabile.

E neppure oggi sono i confini geografici a determinare l’identità europea. Lo vediamo nelle piazze dei Paesi a est dell’Unione, dove si sventolano le bandiere dell’Europa e si sogna l’Europa come destino. Lo vediamo negli occhi di tanti migranti che affrontano rischi mortali e sofferenze pur di raggiungere una terra finalmente di opportunità.

Questa idea di Europa senza confini marcati, o che tende a travalicare sé stessa, è una forza o una debolezza? Probabilmente entrambe le cose. Ma Edgar Morin ha scritto che proprio sulla mobilità dei suoi confini poggiano le fondamenta della civiltà europea personalista e comunitaria, che sa cogliere il valore inestimabile di ogni vita umana, che riconosce la libertà e i diritti universali, che parla di fraternità perché afferma l’uguaglianza. Per questo l’accoglienza e la solidarietà sono sentimenti europei, mentre alzare muri e respingere senza umanità costituiscono uno snaturamento di noi stessi.

La nostra Europa è stata solcata per secoli da guerre sanguinose, sospinte da desideri di conquista, da volontà di potenza, da odii etnici e religiosi. A metà del Novecento, poi, è sprofondata nell’abisso. Da quella catastrofe umana, forse la più grande mai consumata, è emersa una nuova Europa politica. Alle sue fondamenta c’è la promessa di pace che i popoli e gli Stati si sono scambiati dopo la Liberazione dal nazifascismo.

Nonostante le fragilità istituzionali, proprio l’abiura del conflitto armato e l’affermazione di una interdipendenza tra gli Stati membri sono divenuti motori di un potente sviluppo economico e sociale che ha riguardato tutti gli europei.

Lo scorrere dei decenni ha irrobustito sempre più il legame tra la pace e il modello europeo grazie alla crescita nella libertà e nella democrazia, alla costruzione del welfare state, all’espansione dei diritti individuali e sociali, alla diffusione di tecnologie e saperi, alla libera circolazione di persone, merci, idee, capitali. E ora comprendiamo anche come il riequilibrio ambientale sia intimamente connesso con un percorso di giustizia sociale, di pari dignità, di diritto eguale, di solidarietà.

Per questo la pace è parte irrinunciabile del messaggio dell’Europa al mondo. I pesi (economici, demografici, geopolitici) tra i Continenti stanno cambiando, tutti a svantaggio dell’Europa. Gli europei hanno bisogno di rilanciare il proprio ruolo su basi rinnovate. Non possono riuscirci al di fuori di un contesto di disgelo e di dialogo.

Oggi siamo sgomenti davanti all’aggressione della Russia all’Ucraina. Alla violenza terroristica scatenata da Hamas contro gli israeliani. Alla reazione inaccettabile di Israele ai danni della popolazione palestinese di Gaza.

Sono guerre che ci interpellano, che ci riguardano, che ci colpiscono.

Non possiamo tacere. Non possiamo voltarci dall’altra parte. Non possiamo abbandonare chi ha bisogno della nostra solidarietà. Non possiamo usare doppi standard, anche se c’è qualcuno sempre pronto ad accusarti di complicità o di sudditanza verso questo o l’altro.

Questo clima di tensione, questa guerra che penetra nel linguaggio, nelle coscienze può corrodere il tessuto etico e culturale su cui poggia la civiltà europea.

Come evitare di disperdere il dividendo di pace conquistato in questi decenni? Come ricomporre la trama che rischia di strapparsi? Porsi queste domande è già andare controcorrente. Nessuna delle guerre scoppiate nel mondo negli ultimi trent’anni si è conclusa con una pace. Le guerre, una volta aperte, purtroppo continuano. E uccidono, distruggono, seminano odio.

L’escalation bellica è un vortice che rischia di risucchiarci. Qualunque ipotesi di de-escalation viene bollata come irricevibile da chi in quel momento ritiene di avere una relativa supremazia sul terreno.

Viviamo una contraddizione lacerante. Da un lato sentiamo il dovere di difendere la libertà di chi è aggredito perché sappiamo che la libertà non è divisibile: quando manca a qualcuno, alla fine si riduce per tutti. Dall’altro lato sappiamo che non possiamo fare a meno della pace, perché è giusto e umano, mentre invece è disumano sottrarre risorse allo sviluppo, all’impegno per la sostenibilità, alla lotta contro la fame per destinarle alla produzione di armi.

In uno scenario di guerra, o di preparazione alla guerra, l’Europa rischia di perdere la coscienza di sé. Oltre che perdere ruolo nel mondo.

Si chiede di dare finalmente all’Europa una difesa comune. Penso che sia giusto. Ma dobbiamo intenderci sulle priorità. La difesa comune è sì necessaria ma non è sufficiente a restituire all’Europa ciò che la guerra le toglie. Deve essere chiaro il senso di marcia. Non c’è Europa senza un traguardo di pace. Papa Francesco ha usato un’espressione bellissima: “L’Europa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico”.

Nessuno è nemico per sempre! Bisognerebbe gridarlo. La guerra è in sé un atto ostile verso l’Europa. E questo purtroppo non sfugge alle strategie antieuropee, che vengono deliberatamente perseguite a diverse latitudini.

Non può esserci vittoria vera nel conflitto. Perché il conflitto si autoalimenta e la minaccia nucleare non è più un deterrente, ma una leva per forzare continuamente i limiti della guerra convenzionale. La vittoria dell’Europa resta la pace, la cooperazione, l’affermazione del diritto, la costruzione di regole per far funzionare il multilateralismo.

Da europei possiamo aggiungere che l’assenza di pace è in grado di corrodere persino il tessuto della democrazia, peraltro già minacciato da altri fattori di crisi. Senza pace la democrazia fatica a diventare esempio, a riprodursi, a migliorarsi. Abbiamo avuto prova, tragicamente, a partire dalla guerra in Iraq, che la democrazia non si può esportare con le armi. L’Accordo di Helsinki del 1974, invece, fu un grande propulsore di dialogo e di speranza. Penso che abbia contribuito alla fine della Guerra fredda in misura assai più rilevante di quanto non venga solitamente riconosciuto. Nell’orizzonte dell’Europa non deve cancellarsi la speranza di una nuova Helsinki.

La democrazia si può allargare con la coerenza, con la fedeltà allo Stato di diritto, con lo sviluppo senza sfruttamento. Occorre mostrarsi inflessibili anche con chi, all’interno dell’Europa, vuole limitare la libertà di stampa, controllare dal governo le Corti costituzionali e le magistrature, depotenziare e asservire al potere esecutivo i Parlamenti, i partiti, i corpi intermedi.

La politica è sempre un processo. A darle anima però è il desiderio di un mondo migliore. Anche questo desiderio ha a che fare con lo spirito europeo, i cui avanzamenti hanno avuto come motore grandi idealità, visioni del futuro, utopie. Diceva Ernst Bloch, filosofo tedesco che dialogava sulla speranza con il teologo Jurgen Moltman: “Un novum storico non è mai totalmente nuovo. Lo precede sempre un sogno o una promessa”.

Non dobbiamo aver paura di sfidare la realpolitik. Erano sognatori illusi Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi quando, reclusi dal fascismo, scrissero il Manifesto di Ventotene? Erano visionari irrealisti i giovani che a Camaldoli elaborarono il Codice, poi divenuto matrice tra le più importanti della nostra Costituzione? Era un utopista fantasioso Robert Schuman quando pronunciò la dichiarazione – il 9 maggio 1950 – che consideriamo l’atto di nascita della Comunità europea? Vorrei ricordarne l’esordio: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Lo sforzo creativo principale a cui alludeva Schuman era proprio la costituzione dell’Europa come nuova soggettività politica. Un progetto che ancora richiede costruttori all’opera.

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