La lezione data dall’Europa, in un momento difficile come la fine della Seconda guerra mondiale, deve continuamente essere riproposta in forma aggiornata e rinnovata per vincere le sfide economiche di oggi. Le questioni strategiche per il prossimo parlamento sono tre: la prima è il futuro delle politiche fiscali e del vecchio patto di stabilità; la seconda quella delle politiche per la transizione ecologica e digitale; la terza quella di quel primo nucleo di politiche efficaci, ovvero a prova di globalizzazione, che l’UE ha iniziato a predisporre per contrastare la tendenza del commercio internazionale a generare una corsa al ribasso sui diritti in un’economia globalmente integrata.

Se nell’ultimo Parlamento europeo l’Unione ha affrontato sfide decisive e fatto passi avanti fondamentali (come sempre è accaduto nella sua storia proprio nei momenti più difficili) nel prossimo è chiamata a prendere decisioni fondamentali per il proprio futuro e non solo.

In un momento difficile come questo funestato da guerre non dimentichiamo innanzitutto che la storia europea è una risposta di civiltà al problema della qualità delle relazioni e dei conflitti tra stati. E’ con il passo decisivo (promosso da statisti di ispirazione cristiana come Schuman, Adenauer e De Gasperi) della nascita della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) che gli stati europei hanno voltato pagina passando da un mondo “primitivo” fatto di guerre per la contesa di materie prime ad un mondo evoluto dove è la loro messa in comune la base di partenza per soluzioni cooperative dove unione d’intenti e massa critica moltiplicano le forze.

Questa lezione data in un momento difficile come la fine della Seconda guerra mondiale, deve continuamente essere riproposta in forma aggiornata e rinnovata per vincere le sfide economiche di oggi. Da questo punto di vista ritengo che le questioni strategiche per il prossimo parlamento siano essenzialmente tre. La prima è il futuro delle politiche fiscali e del vecchio patto di stabilità. La seconda quella delle politiche per la transizione ecologica e digitale. La terza quella di quel primo nucleo di politiche efficaci, ovvero a prova di globalizzazione, che l’Unione Europea ha iniziato a predisporre per contrastare la tendenza del commercio internazionale a generare una corsa al ribasso sui diritti in un’economia globalmente integrata.

Sul primo punto, come ricordato più volte, è necessario aprire una terza stagione dopo quella del rigore e quella straordinaria della risposta alla pandemia, nella quale si è trovato il coraggio di mettere in comune parte delle risorse e contrastare lo shock con il più grande piano di investimenti pubblici della storia europea, superiore per il nostro paese al piano Marshall in termini di risorse messe a disposizione. La terza fase è ad oggi un misto delle altre due. Torna una regola di disciplina di bilancio per dare un segnale ai mercati e una regola ai paesi membri, non si perde del tutto l’idea di investimenti strategici che possono essere eccezione alla regola perché considerati investimenti fondamentali per il futuro.

Sul secondo punto, come sappiamo, l’Unione Europea ha saputo essere leader a livello globale della transizione ecologica e si propone di esserlo anche in futuro. Resta un gigantesco problema che è quello delle risorse per finanziare la transizione. Se sul fronte della mobilità e delle auto e su quello delle fonti di produzione di energia l’inerzia di tecnologia e mercati sembra ormai muovere nella direzione giusta della decarbonizzazione e dell’affermazione delle rinnovabili, sul fronte dell’efficientamento energetico delle case (decisivo per vincere la sfida) la recente direttiva case Green indica ai paesi membri la direzione ma non mette a disposizione nuove risorse. E proprio in questo ambito l’assenza di risorse rischia di essere decisiva perché gli interventi di efficientamento non si ripagano. Pensare che i 250 miliardi ritenuti complessivamente necessari possano arrivare semplicemente da una riformulazione degli obettivi dei fondi europei esistenti è illusorio. Il nuovo Parlamento potrebbe trovare nuove direzioni per superare l’impasse.

E’ proprio su questo obiettivo che può venire in aiuto il terzo punto. Il ruolo da “prima della classe” di un’Unione Europea che avanza isolata sui temi di responsabilità sociale e soprattutto ambientale è e può essere un problema. Con il termine tecnico di “carbon leakage” si evidenziano gli effetti perversi di regole sulla sostenibilità ambientale (come i certificati verdi) che alzano i costi di produzione per le imprese che si trovano sul suolo dell’Unione. In un mondo globalmente integrato dove le aziende hanno l’opzione della delocalizzazione e possono avere tutto l’interesse di andare a produrre in paesi terzi dove l’asticella è più bassa il paradosso può essere quello di non centrare gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni a livello globale e al contempo perdere tessuto industriale.

Per questo motivo dall’ottobre 2023 e in via sperimentale su acciaio, alluminio e fertilizzanti l’UE ha varato il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism). Il principio è che se un’impresa da paesi terzi vuole esportare nell’UE, e in quei paesi terzi non ha pagato gli stessi costi di sostenibilità ambientale, può esportare da noi solo dopo aver pagato la differenza. Il valore particolare del CBAM è che esso è una misura a prova di delocalizzazione che stimola i paesi terzi a conformarsi agli standard più elevati in vigore in Europa. Di fronte al CBAM che colpisce le proprie imprese un paese terzo può scegliere di pagare il “dazio etico” (non lo chiameremmo dazio ma regola minima di civiltà nel commercio) o di istituire esso stesso- quei costi del lavoro di sostenibilità ambientale in modo da non dover pagare il CBAM ad un paese dell’Unione che importa. Il valore di questa misura è che non ha bisogno di un governo mondiale per dispiegare i sui effetti positivi in materia di sostenibilità. Basta che sia realizzata infatti da un’area economica rilevante dove tutti vogliono esportare per generare effetti indiretti positivi in paesi terzi invece di essere esposta ai costi in termini di performance determinati dalla corsa al ribasso delle impese.

Anche la Global minimum tax, per altri versi, è un provvedimento a prova di delocalizzazione che ci aspettiamo di vedere potenziato nei prossimi anni. In questo caso la corsa al ribasso che si evita è quella della fuga nei paradisi fiscali per eludere il fisco. La regola stabilisce un’aliquota minima sugli utili globali dichiarati dall’azienda che primariamente può essere riscossa dal paese nel quale l’azienda ha sede fiscale. Se quel paese rifiuta (magari per non perdere lo status di paradiso fiscale), il paese nel quale l’azienda ha il volume maggiore di profitti diventa sostituto d’imposta.

CBAM e Global minimum tax sono i primi decisivi tasselli per far uscire la globalizzazione dal far west. Il commercio internazionale rischia di essere oggi un “campionato” senza arbitri dove inevitabilmente è la squadra con il gioco più falloso che vince. Con queste due misure è possibile che un’area economicamente integrata che fa da guida cambi strategia per creare nelle altre un interesse a seguire.

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