«Ciò che sta accadendo ci pone di fronte
all’urgenza di procedere in una
coraggiosa rivoluzione culturale» (LS 114).
Con la Laudato si’, Papa Francesco pone la questione della giustizia nella «casa comune» dell’umanità non secondo il paradigma della crescita ma della giusta distribuzione delle risorse della Terra, trovando una sostanziale convergenza con i Sustainable Development Goals (SDGs) adottati dalle Nazioni Unite nello stesso anno 2015 solo pochi mesi dopo la pubblicazione dell’enciclica, e prima dell’apertura della COP21 di Parigi. Porre la giustizia nei termini del riconoscimento di ogni essere umano e della natura, d’altronde, è un modo senz’altro rosminiano di comprenderla: «il “riconoscimento” dell’essere che conosciamo è il principio della giustizia» [1]. Tale universale riconoscimento dell’essere – di ogni uomo e donna come della natura stessa – si presenta nella prospettiva ambientale attuale come consapevolezza della limitatezza delle risorse e del modo di vivere oltre questi limiti da parte delle nazioni sviluppate. In questo modo, dunque, il riconoscimento diventa concreto nella domanda come risolvere il dilemma dei commons nel caso delle risorse della terra e dei beni climatici.
Posto in tale prospettiva, certamente il problema non è nuovo ma si pone la domanda non solo concreta ma anche urgente come realizzare un’adeguata collaborazione internazionale e uno standard sufficiente di razionalità collettiva per rispondere a tale sfida. E, inoltre, è possibile ricongiungere il bene comune di questi commons con un modello liberale di economia globale che metta al centro la persona, che quindi contrasti alla tentazione di un «socialismo della natura» [2] come sta implicitamente alla base di molti modelli sia naturalistici sia di decrescita oggi?
L’interrogativo che Papa Francesco rivolge alle nazioni sviluppate è, quindi, se si può ritenere ancora giustificato il loro stile di vita, attraverso il quale in modo spesso inosservato e irriflesso sopravvive la dinamica colonialistica dello sfruttamento della terra e dei popoli poveri, mentre li fa accumulare, secondo l’enciclica, un «debito ecologico» (LS 51). Così, la domanda non è più circa il “perché” dobbiamo cambiare, ma sul “come” possiamo riuscire a gestire il cambiamento nel migliore dei modi: è ancora possibile pensare ad una transformation by design [3], se nell’antropocene – e questo concetto sta senz’altro nell’ombra dell’enciclica – l’agire dell’uomo non può essere più compreso come “libero” ed “autonomo” perché inesorabilmente collocato all’interno di un cambiamento radicale che lo stesso essere umano ha scatenato a scala geologica e che quindi la stessa umanità non tiene più nelle proprie mani? A questo punto diventa chiaro come per Papa Francesco l’umanità resta – se agisce in fretta – protagonista del cambiamento, al patto che si ritrova nella connessione universale con tutti e con tutto il creato, all’interno della sua visione della teologia del popolo che implica una condanna radicale del “consumismo” [4] e del “capitalismo” [5] come chiffre dello stile di vita da superare in quanto consiste nello spreco delle risorse e nell’unico interesse del profitto immediato.
Tale modo di produrre e distribuire i beni è il contrario dell’alternativo stile di vita secondo la sostenibilità – la quale nell’enciclica viene menzionata soltanto una volta come sostantivo (citando la Caritas in veritate) e del resto sempre come aggettivo, il che significa che la proposta di Francesco non è riducibile ai SDGs. La “misura” giusta nel rapporto con l’ambiente è per l’enciclica l’idea di un buen vivir etico-spirituale equilibrato che solo riesce a garantire un futuro all’ecosistema e quindi ai popoli più svantaggiati nonché alle future generazioni. Questo appello poi è stato ripetuto da Papa Francesco, insieme al Patriarca ortodosso Bartolomeo I e all’arcivescovo anglicano Welby nel loro appello ecumenico prima della COP26.
Particolare critica ha ricevuto l’enciclica per il riferimento esplicito alla decrescita (degrowth) che viene delineata come prospettiva per le popolazioni più abbienti della terra (LS 193), che però non deve essere inteso come presa di posizione a favore della rispettiva teoria sociologico-economica (Latouche), e non solo perché in generale le encicliche sociali non offrono «soluzioni tecniche» (CV 9), ma soprattutto perché tale affermazione è fatta in riferimento diretto alla possibilità di crescita delle nazioni svantaggiate [6]. Tuttavia, le virtù e possibilità del libero mercato proprio in vista di una crescita più equilibrata a livello mondiale, una volta che si riesce a indirizzare le risorse dal consumo negli investimenti, sono affatto poco contemplate nell’enciclica. Anche se non si ripete il verdetto della Evangelii gaudium – «questa economia uccide» (EG 53) – esso riecheggia dalla prima all’ultima pagina di questo documento. Di fronte a tale silenzio, la parte propositiva che il Papa avanza nell’enciclica per ovviare alla situazione che viene analizzata con grande acribia si concentra sugli atteggiamenti individuali e gli stili di vita, e ciò sembra affatto sotto-complesso rispetto all’enormità della sfida.
L’avversità dell’enciclica circa soluzioni che poggiano sulle istituzioni politico-economiche e quindi si concilierebbero con l’idea del libero mercato (“capitalismo”) si esprime esemplarmente nel rifiuto in toto dello strumento attualmente più efficace a livello internazionale per la riduzione delle emissioni CO2 ossia il mercato dei certificati di emissione: essi vengono giudicati «una soluzione rapida e facile» che non solo non porterebbe a nessuna soluzione di fondo o cambiamento sostanziale ma anzi giustificherebbe addirittura chi di fatto inquina (LS 171).
A tal proposito, un’etica sociale istituzionale – che certamente è lontana dalla teologia del popolo che segue Papa Francesco – individuerebbe proprio in questo strumento certamente non la soluzione moralmente “migliore” ma socialmente più efficace per raggiungere l’obiettivo, proprio perché non lavora con appelli morali (o moralistici) ma con incentivi adeguati che portano ad atteggiamenti meno inquinanti anche chi non si lascia moralmente convincere. In questo modo, si tratta – anche con i meccanismi del mercato – di implementare meccanismi di collaborazione nel mercato che impediscono le esternalità negative della concorrenza. Il motivo per questo “successo” di un’etica istituzionale o “delle regole” sta in quel fatto che del resto viene anche reclamato dalla stessa enciclica ossia che bisogna integrare i costi dell’ambiente nelle dinamiche del mercato (LS 195). Se però il Papa afferma esplicitamente il meccanismo etico che sta alla base di un’etica istituzionale o “delle regole” pur negando poi una soluzione del problema della “giustizia delle risorse” che opera in conformità con il mercato, allora ne risulta che ciò che l’enciclica vuole impedire è una giustificazione dello stile di vita “capitalistico” o “consumistico” – che in effetti si riferirebbe alla legittimità del mercato – ma non è affatto inconciliabile con un’etica delle strutture la quale troverebbe espressione poi in un pensiero economico simile all’economia sociale di mercato [7].
Proprio in riferimento a LS 195, un mercato dei certificati di emissione potrebbe certamente essere valutato, anche contrariamente alla lettera (non allo spirito!) di LS 171, un valido strumento. A questo punto, la differenza dell’enciclica con gli strumenti dell’economia di mercato resterebbe in fin dei conti solamente graduale ma non più sostanziale, e la realizzazione di una “giustizia delle risorse” non sarebbe più completamente avversa allo strumento del libero mercato, a condizione che esso non diventa “fine” o “stile di vita”.
In questa prospettiva, anche la valutazione della COP26 di Glasgow, specialmente della dichiarazione finale, non deve per forza risultare negativa alla luce della Dottrina sociale della Chiesa – a differenza dalla lettura degli attivisti del clima dalla parte di Greta Thunberg (“blah blah blah”). Il fatto che l’India e la Cina fanno parte degli accordi, a livello politico è un risultato da non sottovalutare: indubbiamente, tale risultato è stato ottenuto al prezzo di programmi meno ambiziosi di quanto molti speravano, ma per salvare il bene collettivo del clima, tutti – soprattutto i due popoli più grandi del pianeta – devono collaborare.
È senz’altro vero che così la neutralità climatica non è per nulla assicurata, anzi la via verso questo fine è lunga: però, nella logica di un’etica istituzionale bisogna rilevare che un tale fine comunque è stato formulato (sebbene solo in forma di “zero netto” entro il 2050, che consentiva di indebolire l’ambizioso Coal Out in un molle Coal Down). Una volta che questo fine è formulato politicamente, sarà senz’altro l’economia che è capace di realizzarlo molto più efficacemente della politica. È precisamente questa la dimensione meno valorizzata da parte dell’enciclica come anche degli attivisti di Greta. Proprio per il fatto che un riconoscimento è stato affermato da quasi 200 Stati – mai è stato raggiunto un accordo così ampio – e che questo riconoscimento affermi chiaramente che la causa dei disastri climatici sono le fonti di energia fossile, nonché per l’effettivo ridimensionamento drastico delle sovvenzioni in questa direzione, il messaggio per l’economia è chiaro, e le grandi aziende chiederanno alla politica ulteriori passi che consentano loro più sicurezza di pianificazione.
In questa dimensione sta il vantaggio del documento conclusivo della COP26 rispetto alla Laudato si’ che non contempla tale raggiungimento del fine tramite la sua operazionalizzazione politico-economica. Come si vede, tra la Laudato si’ da un lato, e la COP26 nonché le SDGs, dall’altro, si lascia istaurare una lettura trasversale di integrazione reciproca: etica, da un lato, e politica, dall’altro. Proprio dalla prospettiva dell’etica sociale che si ispira alla Dottrina sociale della Chiesa, bisogna quindi valorizzare gli effettivi passi (piccoli), ma anche denunciare che la solidarietà con i Paesi in via di sviluppo non è stata sufficientemente considerata: infatti non sono per niente adeguati i fondi previsti dalla COP26 per i danni e svantaggi prodotti dai cambiamenti climatici agli Stati poveri – si tratta di un semplice raddoppio da 20 a 40 miliardi dollari entro il 2025. Così sono proprio quei Paesi che meno causano ma più subiscono il cambiamento climatico – i Most Affected People and Areas (MAPA) e gli Small Island Developing States (SIDS) – a cui è mancata una rappresentanza adeguata a Glasgow.
Proprio dalla costatazione di questi limiti dell’attuale ordinamento internazionale nasce quella che è davvero la proposta epocale della Laudato si’ che, andando oltre l’appello morale e il linguaggio ricco di immagini, indica la necessità di una riforma etico-istituzionale capace di integrare le dinamiche del libero mercato in una nuova visione del rapporto tra i popoli capace di superare davvero la dicotomia tra popoli “del nord” e “del sud”: un nuovo «contratto globale dei popoli» [8], si potrebbe dire, che consiste in una nuova comprensione del diritto internazionale basato non più sulla coesistenza, ma sulla cooperazione. La dichiarazione d’indipendenza come atto originario dell’epoca degli Stati nazione, sarà così sostituita dalla dichiarazione d’interdipendenza che realizza la consapevolezza che «tutto è connesso» anche a livello istituzionale [9].
In questa prospettiva, la Laudato si’ deve essere letta insieme con la Fratelli tutti che parla di un mondo già in parte diverso rispetto all’epoca della globalizzazione: ormai le ombre dei nazional-populismi incombono sul pianeta già indebolito dalle dinamiche della globalizzazione, e diventano i nuovi poteri che si oppongono alla visione epocale della Laudato si’ di un nuovo rapporto tra i popoli dell’unica casa comune.
Note
[1] A. Rosmini, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore (Ediz. crit., 23), Città Nuova, Roma-Stresa 1990, p. 134, titolo.
[2] P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2009 (trad. it. S. Franchini: Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Raffaello Cortina, Milano 2010), pp. 695-696.
[3] Cfr. B. Sommer / H. Welzer, Transformationsdesign. Wege in eine zukunftsfähige Moderne, Oekom, München 2014; M. Vogt, Christliche Umweltethik. Grundlagen und zentrale Herausforderungen, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2021, p. 249.
[4] «Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico» (LS 203).
[5] Per il Papa il sistema capitalistico si caratterizza per essere «un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso» (LS 52).
[6] Infatti, «la necessità di una certa decrescita affinché i Paesi del Sud possano continuare a crescere» (G. Giraud / P. Orliange, Laudato si’ e Obiettivi di sviluppo sostenibile: una convergenza da affinare, in: Aggiornamenti sociali 2017, giugno-luglio, pp. 497-507, qui p. 500).
[7] Cfr. F. Forte / F. Felice (edd.), Il liberalismo delle regole. Genersi ed eredità dell’economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010.
[8] Vogt, Christliche Umweltethik, p. 250.
[9] Cfr. W. Sachs, Papst vs. UNO. Sustainable Development Goals und Laudato si’: Abgesang auf das Entwicklungszeitalter?, in: Peripherie 38 (2018), 150-151, pp. 245-260, qui p. 254.
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