Il modo in cui le donne si dispongono nello spazio pubblico, ovvero nei cosiddetti ‘luoghi apicali’, è un indicatore evidente della loro più o meno avvenuta emancipazione. Qui parlano i numeri, implacabili nella loro eloquenza. Limitandoci a quelli che riguardano il nostro Paese, ne ricordiamo alcuni. 6 donne rettore di Università su 76 rettori uomini, 119 Magistrate dirigenti su 315 loro colleghi maschi, 16.976 Presidenti di CdA donne su 49.908 uomini, e per passare alla politica, nell’attuale legislatura 5 donne conducono Ministeri, contro 13 Ministri uomini, a fronte di percentuali del 34,4 di senatrici e 35,7 di deputate. Partiamo da questi dati che riguardano la carriera o l’empowerment femminile perché è alla loro luce che acquista un diverso significato anche la stessa presenza femminile sul mercato del lavoro (tasso di occupazione 49,4 contro il 68,5 maschile) con annesse differenze salariali che si ripropongono ad ogni livello di ruoli (dai dirigenti ai quadri agli operai), fino al trattamento pensionistico.
Intendiamo dire che la rivoluzione incompiuta che il Novecento – “il secolo delle donne” – ha consegnato al secondo millennio si misura puntualmente nella permanenza del “tetto di cristallo” che impedisce l’accesso ai ruoli apicali e ai luoghi decisionali. Lì dove si manifesta e si esercita il potere. E’ parola che evoca dominio, supremazia, rapporti asimmetrici, egemonia materiale e culturale. Può suscitare sospetto, e perfino rigetto nella cultura “dell’uno vale uno”.
Nella stessa cultura politica delle donne le posizioni al riguardo sono state e sono divergenti. Non è mancata chi, nelle file del più intransigente o radicale “pensiero della differenza”, liquida la questione in nome di una totale e irreducibile estraneità femminile ad un potere che è fantasma maschile per eccellenza, proiezione di una superiorità che da prodotto storico si è trasformato, negli uomini, in una sorta di auto-rappresentazione identitaria. Secondo questa linea di pensiero, le donne non sono nei luoghi del potere perché non ci vogliono essere, e precisamente questa circostanza consente loro di pensare altrimenti le relazioni sociali, le pratiche politiche, l’economia. Insomma, il “mondo”.
Il tetto di cristallo più che un impedimento sarebbe una barriera difensiva che salvaguarda la differenza impedendone l’omologazione al logos maschile.
Senza entrare nel merito di questa visione, che è supportata da analisi e da una ricca letteratura, ci preme in questa sede assumere la questione del potere (largamente inteso) nelle sue ricadute concrete. In altri termini: cosa comporta l’assenza o la marginalità dalla scena pubblica nei luoghi dove se ne decide la prospettiva, la configurazione, la direzione di marcia? Intendiamo per “scena pubblica” la piena visibilità dei soggetti sociali, la loro rilevanza, la possibilità di incidere e contare. Intendiamo quella dimensione dalla quale le donne sono state tenute lontane in nome di una loro iscrizione al dominio della Natura, in quanto opposto e contrapposto alla Storia.
Ciò è avvenuto nella stessa inaugurazione della modernità, con un sistema di cittadinanza fondamentalmente dicotomico (pubblico VS privato, società VS famiglia, lavoro VS cura etc….). Il progetto emancipazionistico ed egualitario delle Rivoluzione francese nasce con questo peccato d’origine. Risuonano con particolare vigore e passione le parole di una grande intellettuale del tempo, Mary Wollstonecraft, che nel pieno della rivoluzione, nel 1792 così ebbe a scrivere: “Lasciateci considerare le donne in una grande prospettiva: creature umane, esse hanno in comune con gli uomini di essere sulla terra per sviluppare le loro facoltà”.
Ecco, il “potere” è in prima istanza quello di sviluppare le facoltà. In questo senso, è né più né meno che il diritto di dispiegare compiutamente nella società le proprie capacità. Nella società, ovvero simultaneamente al proprio spazio individuale si collabora al bene comune. Il poter-essere si declina come un poter-fare. Per questo la riflessione sullo stato dell’arte, o se si preferisce sullo status quaestionis (perché ciò che appare è anche sempre ciò che rinvia all’ordine simbolico-culturale, come non dobbiamo mai dimenticare), per quanto attiene alla collocazione delle donne nella polis e nelle sue diverse dimensioni, ci conduce a valutare le potenzialità di sviluppo e il modello sottostante che emergono in una data società. Il potere delle donne è poter-essere e poter-fare nel vasto spazio del “mondo”. Non si tratta di volere degli spazi, ma di avviare processi, come ci ha ricordato e ricorda più volte papa Francesco.
Gli ostacoli a questo dispiegamento delle energie femminili nell’intero arco dei ruoli sociali (da quelli ordinari a quelli apicali), sono molti e molteplici. Anzitutto, di natura culturale. Senza negare i cambiamenti avvenuti in questo campo (e basterebbe la visione di qualche film “commedia” degli anni Cinquanta della nostra ricca filmografia per convincersene…) non c’è dubbio che le resistenze culturali sono ancora forti ed evidenti.
L’idea di una “naturale” propensione maschile al comando è dura a morire. C’è sempre un che di anomalo in una donna che sta alla guida di un taxi o di autobus! Per non dire in sala operatoria, nelle vesti del chirurgo e non dell’infermiera che lo assiste con puntuale competenza nel passargli i “ferri del mestiere”. Su questo piano, dell’erosione del modello di subordinazione o subalternità femminile, il ruolo dell’educazione, nella scuola, nella famiglia ma anche nella società nel suo complesso, è fondamentale. Per non dire dei vecchi e nuovi media, che (a partire dai social) in questo campo danno segnali di persistenza del vecchio, quando non di involuzione. I miti consumistici e narcisistici del successo non veicolano istanze di empowerment femminile che vadano oltre le apparenze e l’auto-affermazione fine a se stessa.
Lo stesso indebolimento dei legami sociali priva il “potere” del suo più virtuoso e sinergico spazio di espressione e realizzazione. Le donne debbono fare una sorta di doppio salto, nella direzione dei ruoli apicali, ancora troppo lontani (come i numeri sinteticamente riportati all’inizio stanno a indicare) dalle donne, e al contempo una loro ri-qualificazione e ri-conversione da una logica individualistica, oggi largamente dominante, ad un autentico sentimento del bene comune. Nell’economia, nella politica, nel mondo produttivo. Senza velleità palingenetiche, senza presunzioni di superiorità morale, senza forzature dettate dal “mito” di un femminile che salva il mondo. Basterebbe umanizzarlo, questo mondo. E guardarlo da una posizione centrale, e non più marginale.
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