È ormai un fatto che ci troviamo nell’epoca della quarta rivoluzione industriale. Industria 4.0, questo il nome che più frequentemente identifica il cambiamento, rappresenta un nuovo paradigma industriale che scaturisce da una serie di rapide trasformazioni tecnologiche nella progettazione, produzione e distribuzione di sistemi e prodotti. Si tratta di uno scenario inedito, che pone una grande sfida alle imprese, ma anche al mondo del lavoro e alla società nel suo complesso, dal momento che comporta profondi cambiamenti culturali.
Se, infatti, è facile pronosticare che la quarta rivoluzione industriale condurrà verso una produzione industriale e un manifatturiero automatizzato e interconnesso, più arduo è cercare di capire come cambierà il mercato del lavoro, quali nuove professionalità saranno necessarie e quali invece potrebbero presto scomparire. In passato si è già verificato che il progresso tecnologico abbia messo in crisi modelli produttivi consolidati senza aver un impatto realmente benefico sull’economia e sul mondo del lavoro. Secondo una recente indagine (McKinsey, 2017) la metà delle attività lavorative a livello mondiale potrà essere automatizzata entro il 2055. In Italia, in sei tipologie di lavori su dieci, buona parte dei compiti sarà eseguito da macchine. Circa la metà della forza lavoro italiana (circa 11 milioni di individui) farà i conti con l’automazione.
Il nuovo scenario lascia intravedere alcune potenzialità rispetto al lavoro, ma pone anche diverse incognite. Le nuove forme di lavoro dovrebbero garantire reddito più alto, maggiore efficienza e flessibilità. Inoltre, una nuova centralità sarebbe assunta dal lavoratore, che, specie se con alta specializzazione tecnico-scientifica, assume un ruolo strategico nei processi produttivi. A fronte di ciò, però, cambiamenti radicali si impongono riguardo le mansioni, gli orari, i luoghi di lavoro e le competenze del lavoratore. In questo senso va rilevato che è molto bassa la quota di lavoratori attualmente in possesso di competenze ICT e cognitive sufficienti a sostenere il cambiamento. L’abbandono dei paradigmi fordisti determina poi la nascita di figure ibride, che non possono essere chiaramente qualificate né come lavoratori dipendenti né come lavoratori autonomi, col rischio di far emergere un “caporalato digitale” dove l’individuo si trova in proprio a gestire lavoro, tutela e formazione, pagando spesso in termini di minore protezione sociale e più elevata precarietà: nell’Unione europea, nel complesso il 54,5% degli auto-impiegati rischia di non avere indennità di disoccupazione; il 37,8% indennità di malattia (Commissione europea, 2016).
Opportunità per le donne? Il discorso delle competenze…
Per l’universo femminile i nuovi scenari assumono un significato del tutto particolare. Il punto di partenza delle donne non è incoraggiante: da tempo sono le protagoniste di una mancata valorizzazione dei talenti presenti nel mercato e nei luoghi di lavoro. Tuttavia molti osservatori sostengono che le tecnologie digitali aiuteranno a colmare il divario di genere, attribuendo ad Industria 4.0 la capacità di superare un ritardo tipico del mercato del lavoro italiano.
Le ragioni di tale fiducia sono essenzialmente due: la prima fa riferimento alla dotazione di competenze, grazie alle quali le donne subirebbero una minore minaccia da parte della tecnologia in quanto unirebbero alle competenze digitali le soft skill, sempre più ricercate nei nuovi contesti lavorativi. Peccato che la realtà mostri un volto assai differente. Il lavoro 4.0 impone una preparazione sempre più ampia nelle cosiddette materie STEM (scince, technology, engineering and mathematics), ma questo è un ambito in cui le donne sono ancora sottorappresentate: su 1.000 donne laureate in Europa, solo 29 hanno fatto un percorso di studi in ICT e di queste 4 lavorano effettivamente nel settore (Commissione europea, 2015).
Nel complesso dei Paesi OECD le donne rappresentano meno del 20% dei laureati in informatica (OECD, 2018). Ciò si riflette anche nei ruoli professionali: secondo il rapporto 2016 dell’ITU, solo il 19% dei manager ICT sono donne, contro una media del 45% negli altri settori, e soltanto il 9% degli sviluppatori di app sono donne. Guardando anche ai nuovi settori si nota che, ad esempio, il gaming e i nuovi media sono dominati dagli uomini, mentre nei servizi informazioni dall’estero e nel lavoro di “cliccare” le donne sono sovra-rappresentate. Del resto il mercato del lavoro italiano non è incoraggiante da questo punto di vista: una nostra recente ricerca (1) ha evidenziato come tra le giovani concittadine intervistate (18-29 anni) persista una forte segregazione professionale nei settori produttivi classici, mentre quelle tra loro che svolgono professioni ad elevata specializzazione (nel complesso circa il 20% del campione) lavorino in larga parte all’estero: 43% circa rispetto al 15% che lavora in Italia.
La realtà evidenzia che le donne svolgono più lavori routinari in ogni professione, perciò più esposti ad essere rimpiazzati dalle machine: mediamente il 13% in più rispetto agli uomini in 30 Paesi avanzati (IMF, 2018). Conta la scelta occupazionale, quindi la segregazione femminile, e i lavori svolti consentono alle donne anche meno opportunità di formazione. Inoltre, l’assenza delle donne dai ruoli apicali le espone ipso facto maggiormente al rischio di sostituzione. Nel complesso 26 milioni di lavori femminili sono a rischio di essere sostituiti dalla tecnologia nei prossimi venti anni in 30 Paesi avanzati, sebbene con differenze tra Paesi e settori; 180 milioni a livello globale (il 14% della forza lavoro femminile totale – IMF, 2018). Pertanto i futuri professionisti delle discipline STEM, ben formati e ben retribuiti, saranno soprattutto uomini se non si interviene con misure di empowerment incoraggiando le donne ad intraprendere percorsi diversi.
Peraltro, anche quando sono presenti in ambito tecnico-scientifico, le donne vivono fenomeni di discriminazione. A partire dal Novecento c’è stato un notevole progresso della presenza femminile all’interno della scienza, con grandi resistenze da parte del mondo accademico. Si è riprodotta anche nell’ambiente scientifico una segregazione professionale (orizzontale e verticale) che ha condotto alla femminilizzazione delle scienze pure, e ad una minore presenza delle donne nelle scienze applicate. Inoltre, ci sono altri aspetti, recentemente illustrati in letteratura (2), che caratterizzano l’ambiente scientifico, come il cosiddetto paradosso del settore prestigioso (field status paradox): i settori emergenti in ambito scientifico vedono una cospicua presenza femminile al loro interno, che però si riduce sensibilmente con il crescere di importanza del settore a tutto vantaggio degli uomini. Ciò mostra come nelle culture organizzative sia presente un canone di genere, per scardinare il quale non è sufficiente solo aumentare il numero di donne nelle carriere e nei percorsi di studio.
Quanto alle soft skill, considerate tipicamente femminili, saranno – secondo gli esperti – sempre più richieste: la visione d’insieme, l’intelligenza emotiva, l’empatia, il saper lavorare in multitasking, in collaborazione e non in competizione, il saper creare e valorizzare le reti sociali, l’attitudine a lavorare in squadra, il problem solving, il pensiero critico, la creatività diventeranno sempre più strategiche, beneficiando le donne con nuove opportunità.
Posto che gruppi di lavoro misti e una leadership bilanciata rispetto al genere hanno un impatto positivo sulle performance aziendali, non è detto che il mondo del lavoro sia pronto per questo, specie perché ciò comporta abbattere una serie di stereotipi. Del resto, anche l’attribuire automaticamente alle donne simili competenze è a sua volta frutto di una visione stereotipata e comunque non può esser dato per scontato che esse vengano impiegate nel lavoro. I precedenti storici – in ogni caso – non aiutano: già sul finire del secolo scorso si era a lungo discusso delle trasformazioni nel mondo del lavoro e delle competenze, specie trasversali, necessarie a starci dentro. Anche allora si era sostenuto che tale approccio avrebbe favorito le donne, speciali detentrici di tali competenze. Poi si è visto che non c’era mercato reale per le soft skill, che le imprese non erano pronte e riconoscerle, né a premiarle, specialmente nelle donne.
… e della flessibilità del lavoro
La seconda ragione risiede nel fatto che le nuove modalità produttive comporteranno criteri di flessibilità, ad esempio di orari e spazi, che andranno incontro alle necessità delle lavoratrici. Opzioni come quella dello smart working – si sostiene – saranno utili per conciliare, contribuendo a superare gli ostacoli che spesso spingono le donne a rinunciare alla carriera. Ma anche qui non è detto che si vada proprio in questa direzione.
Intanto è noto che soluzioni pensate come utili per le donne, quali quella dello smart working, sono, in realtà, prevalentemente apprezzate dagli uomini: secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano nel 2018 i lavoratori che hanno scelto questa modalità lavorativa sono per il 76% uomini. Inoltre, sorvolando (ma non troppo) sulla necessità di passare dalla conciliazione alla condivisione, facendo un salto culturale che superi le disparità nella gestione dei carichi di cura, risulta ancora dubbio che il lavoro digitale agevoli tale compito. Esso è svolto, di solito, in autonomia, ma sfumando i contorni tradizionalmente attribuiti al lavoro, lo rende precario, normalizzando lo svantaggio femminile (3).
Le lavoratrici vengono attirate nel lavoro freelance e nell’auto-impiego come soluzione alle esigenze conflittuali tra lavoro pagato e non pagato. Nel nuovo mondo dei media, i lavori temporanei, precari e intermittenti sono prevalentemente occupati da donne, che sono anche generalmente meno tutelate dai sindacati. Secondo la Commissione europea (2016), è del 46,1% la quota di donne (15-49 anni) nella Ue a rischio di non poter godere benefici legati alla maternità. Il costo personale sostenuto dalle donne in questo sistema è molto alto.
Intanto il lavoro digitale è entrato in casa, annullando i confini tra vita privata e lavoro retribuito: la casa diviene il luogo della forma competitiva di lavoro, con la conseguenza che non è più possibile definire e circoscrivere cosa conta come lavoro. Il lavoro retribuito invade il tempo privato presentandosi come “lavoro flessibile”, persino divertente, ma decretando una perenne mancanza di tempo. È quanto è stato identificato con il termine di time porosity (Genin, 2016), l’interferenza tra ciò che è considerato tempo di lavoro e ciò che è tempo personale, dove è quest’ultimo a venire progressivamente eroso.
In conclusione, si direbbe che il lavoro virtuale rifletta, estenda e consolidi le dinamiche occupazionali di lungo corso dello svantaggio di genere. Per il lavoro femminile lo scenario non appare così incoraggiante come viene descritto, proprio mentre profonde trasformazioni sono in corso con esiti incerti sui futuri livelli occupazionali. In questo contesto, il rischio di acuire ulteriormente la frattura di genere esiste. È, dunque, necessario interrogarsi se Industria 4.0 tenderà alla riproduzione sociale, diminuendo la presenza femminile e incrementando la segregazione professionale legata agli stereotipi di genere. Ma soprattutto non serve affidarsi acriticamente alla tecnica, sperando che risolva questioni che sono eminentemente culturali e politiche.
Dotare le donne delle competenze richieste dal mondo del lavoro, annullare il divario di genere nelle posizioni apicali, superare il digital divide, agevolare la transizione a nuovi lavori per le lavoratrici che saranno sostituite sono priorità che non si produrranno spontaneamente. I sistemi di protezione sociale, la formazione, le misure di conciliazione, le politiche, insomma, sono fondamentali per orientare il cambiamento realmente nella direzione della parità, precedendo e accompagnando i processi in atto, anziché contare totalmente su di essi, che da soli non potrebbero che riprodurre i divari esistenti.
Ogni rivoluzione industriale ha prodotto dei cambiamenti ma le innovazioni tecnologiche non sono di per se stesse foriere di occupazione e di valorizzazione del fattore umano. La parità di genere non dipende dall’avvento di un nuovo paradigma produttivo, perciò non va affidato alla tecnica ma ancora e sempre alle scelte collettive e della politica l’obiettivo di portare parità di genere nel mondo del lavoro.
(1) AA.VV., Valore Lavoro. Strategie e vissuti di donne nel mercato del lavoro, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2018.
(2) Etzkowitz, H., & Ranga, M., Gender dynamics in science and technology: From the ‘‘leaky pipeline’’to the ‘‘vanish box’’, Brussels economic review, n. 54(2/3), pp. 131-148, 2011.
(3) Webster J., Randle K., Virtual Workers and the Global Labour Market, Palgrave Macmillan, 2016.
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