Cosa può rendere oggi, dopo le elezioni del 2022, meno retorico il discorso sulla complessa relazione tra dignità, lavoro e speranza? Cosa può rendere più reale la riflessione sulla dignità che si esprime mediante lo svolgimento di un lavoro sicuro e retribuito? Cosa può renderci più pronti a spiegare la speranza che è in noi, anche con riferimento al futuro del lavoro? Per rispondere a queste domande ci si deve porre all’interno di una doppia riflessione. La prima possiede un orizzonte ampio. Essa attiene all’insegnamento sociale della Chiesa. Nella linea già tracciata dai padri della Chiesa[1], che ripetevano “gloria Dei, vivens homo”, l’insegnamento sociale sottolinea che il discorso su Dio dipende dal lavoro, dall’educazione, dal cibo, dalla casa, dalle cure mediche e, dunque, dai diritti umani che sono promossi responsabilmente a favore di chiunque, a partire dai più vulnerabili, e il più possibile tutelati in vista della libertà e dell’autonomia personale.
In questa linea, si possono leggere alcune esperienze significative di donne e uomini che hanno innovato, nel tempo, l’approccio della Chiesa alla carità, affermando, con intuizioni profonde e con una correlata prassi, che la carità deve essere necessariamente coniugata a cambiamenti sistemici delle situazioni di degrado umano e, dunque, alla giustizia sociale, con la rimozione o la mitigazione delle cause che determinano povertà, analfabetismo, mancanza di lavoro, mancanza di cure sanitarie, disuguaglianze [2].
Con altre parole, non c’è carità senza giustizia perché non c’è carità senza un serio tentativo di rimozione delle cause che determinano povertà e disagio sociale. La carità, infatti, prevede quasi sempre un impegno politico per la giustizia sociale, sapendo che “l’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi” (Fratelli tutti, paragrafo 69).
La seconda riflessione, che è più pratica, deriva da ciò che la pandemia e l’attuale crisi energetica hanno posto in evidenza sull’incapacità del sistema italiano di accompagnare le persone inoccupate verso il mercato del lavoro. Con altre parole, le politiche attive ahinoi non funzionano quasi per niente in alcune aree nel paese (Sud) o funzionano poco in altre (Centro-Nord).
Tale sistema è privo di una seppur minima traccia di unitarietà, essendo spacchettato in circa venti sistemi regionali che tra di essi non sono connessi in alcun modo. Non è stato dotato di una dorsale digitale nazionale, dato che ogni Regione mantiene con orgoglio forme ormai ingiustificabili di sovranismo territoriale informatico. Il modello a gestione mista pubblico/privato del mercato del lavoro che rincorriamo dal 1997 è, nella migliore delle ipotesi, un cd. tema su cui confrontarsi (sic!).
Il decreto interministeriale sul Programma nazionale per la Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori (GOL), volto alla realizzazione della Missione M5, componente C1, del PNRR e all’’intesa della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, mette a disposizione delle Regioni 4,4 miliardi di euro, a cui si aggiungono 600 milioni di euro per il rafforzamento dei centri per l’impiego e 600 milioni di euro per il rafforzamento del sistema duale. Il PNRR fotografa inefficienze e incapacità che si concretizzano, ancora oggi, nella mancata realizzazione di un meccanismo di promozione dell’occupabilità che sia comparabile con altri grandi paesi europei. I risultati PNRR/Missione M5 raggiunti a settembre 2022 non sembrano così soddisfacenti. Ricerche recenti dimostrano che alcune Regioni (Centro-Nord) si stanno muovendo, molte altre (Sud) restano ferme, creando un effetto boomerang sulle politiche del lavoro che danneggia particolarmente giovani e donne.
Il 2022 presenta, in alcuni settori, criticità che non possono essere gestite solo con misure di sostegno al reddito, come cassa integrazione o NASPI. Il PNRR indica come obiettivi ciò che avremmo potuto o dovuto fare, ma non abbiamo fatto: reinserimento lavorativo (per coloro più vicini al mercato del lavoro, servizi di orientamento e intermediazione per l’accompagnamento al lavoro); upskilling (per lavoratori più lontani dal mercato, ma comunque con competenze spendibili, interventi formativi richiesti prevalentemente di breve durata e dal contenuto professionalizzante); reskilling (per lavoratori lontani dal mercato e competenze non adeguate ai fabbisogni richiesti, formazione professionalizzante più approfondita, generalmente caratterizzata da un innalzamento del livelli di qualificazione/EQF rispetto al livello di istruzione); inclusione (nei casi di bisogni complessi, cioè in presenza di ostacoli e barriere che vanno oltre la dimensione lavorativa); ricollocazione collettiva (valutazione di sbocchi occupazionali sulla base della specifica situazione aziendale di crisi, della professionalità dei lavoratori coinvolti e del contesto territoriale di riferimento).
Questo quadro sulle politiche attive ci permette di evitare un discorso retorico sulla relazione tra speranza, dignità e lavoro. Anzi, esso ci pone davanti a tre problemi: come superare il regionalismo differenziato nelle politiche attive, data l’inefficienza che deriva dal Titolo V della Costituzione e dai relativi riflessi sulla ripartizione dei poteri dalla quale origina una significativa funzione legislativa regionale in materia di collocamento, servizi per l’impiego, sostegno all’inserimento dei vulnerabili e formazione professionale; come garantire i livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale e la standardizzazione del percorso di sostegno nelle fasi di disoccupazione/inoccupazione; come rafforzare i meccanismi di condizionalità, collegandoli a un effettivo esercizio del diritto individuale alla formazione continua.
Per essere più diretti, solo rispondendo a questi tre problemi si gestisce la garanzia dell’eguaglianza sostanziale del cittadino, il quale esercita o meno un diritto sociale (in questo caso, il diritto alla ricollocazione nel mercato del lavoro) che si concretizza in servizi che non debbono dipendere dal fatto di esser nati in una certa Regione e non in un’altra.
C’è una soluzione a portata di mano? Forse sì. Non è la panacea di ogni male, ma è un modo per mettere ordine e iniziare un percorso di razionalizzazione. Si tratta di valorizzare ulteriormente l’intuizione del legislatore del 2015 relativa al cd. fascicolo elettronico del lavoratore, facendo leva sulla tecnologia più avanzata.
Realizzare, a livello nazionale, un fascicolo elettronico del lavoratore significa avere un meccanismo di collocamento nel mercato del lavoro che è data-centrico, interconnesso con l’intera storia della persona, dalla scuola al lavoro, dalla formazione specifica a quella continua, perché volto a agevolare la conoscibilità di competenze, talenti, professionalità. Sarebbe uno strumento messo a disposizione dei datori di lavoro che cercano manodopera, anche per il tramite di servizi per l’impiego, pubblici e privati. Sarebbe altresì il modo mediante cui si riesce a verificare quali sono le competenze da rafforzare per restare nel mercato del lavoro. Ci sono molti benefici già segnalati in recenti studi (v. https://www.federalismi.it/focus/index_focus.cfm?FOCUS_ID=128&focus=special).
Per realizzare il fascicolo elettronico del lavoratore, si può immaginare, da una parte, di consolidare la digitalizzazione della PA, con cloud, sistemi applicativi e centri elaborazioni dati e, dall’altra, come proponiamo nelle nostre ricerche universitarie, di introdurre un sistema di registri distribuiti, noto anche con la formula di “social blockchain”. Per la Commissione Europea “le tecnologie blockchain […] sono considerate una grande innovazione, in quanto offrono elevati livelli di tracciabilità e sicurezza nelle transazioni economiche online”, inoltre si sottolinea che “[…] tali tecnologie influiranno sui servizi digitali e trasformeranno i modelli aziendali in molteplici settori, ad esempio in ambito sanitario, assicurativo, finanziario, energetico, logistico e nel settore della gestione dei diritti di proprietà intellettuale o dei servizi pubblici”.
La blockchain è uno schema digitale crittografico che può rende giuridicamente possibile il trasferimento digitale di dati, valori, diritti e informazioni, senza la presenza di terzi certificatori. È una specie di partita “tripla” (non più “doppia”) che, con una rendicontazione/registrazione crittografica, permette a una certa rete di operatori di avere una ricognizione storica delle movimentazioni di dati e informazioni, che per il giurista sono anche vicende giuridiche che attengono a un certo bene/servizio/diritto. Blockchain, in altre parole, non è solo bitcoin e finanza digitale.
L’attenzione degli operatori viene concentrata sul bitcoin, dimenticando che la blockchain, che è certamente alla base della struttura operativa che ha reso possibile il bitcoin, potrà avere utilizzazioni potenziali molteplici e innumerevoli, soprattutto in settori diversi dalla finanza. Ci sono già esempi, in altri ordinamenti, di applicazione della blockchain alla pubblica amministrazione, con riferimento alla gestione delle carte di identità, fascicoli sanitari digitali, agenzie fiscali e relazioni digitali con il cittadino.
In altre parole, la blockchain può permettere alla pubblica amministrazione, anche sociale, di ridurre i costi e contestualmente di rafforzare la fiducia, la tracciabilità e la sicurezza delle relazioni giuridiche, economiche e sociali con i cittadino/lavoratore. E’ un deterrente fortissimo contro possibili attacchi digitali o contro manomissione di dati, o utilizzo abusivo di essi, con l’effetto di eliminare o ridurre al minimo l’intervento di operatori con funzione di intermediazione tra pubblica amministrazione previdenziale e cittadino/lavoratore.
Il punto da cui muove la nostra ricerca attiene alla valutazione dell’impatto della blockchain sul sistema pubblico/privato che gestisce le politiche del lavoro e la previdenza sociale. Nelle politiche del lavoro, la blockchain sociale potrebbe permettere di costruire in modo efficiente un sistema unitario (Stato/Regioni) che attendiamo dal 1997 e che l’Europa, anche mediante le risorse PNRR, sollecita significativamente.
E’ un sistema volto a facilitare il matchmaking tra domanda e offerta di lavoro, mediante la creazione del fascicolo elettronico del lavoratore in blockchain, verso cui confluirebbero i dati relativi alla professionalità acquisita e alla formazione continua (titoli di studio, corsi di formazione, lavoro svolto, storia previdenziale, etc.). Di conseguenza gli operatori del mercato potrebbero essere agevolati nelle ricerche di personale qualificato (facendo venir meno il cd. mismatch del mercato del lavoro). Inoltre, il disoccupato potrebbe selezionare la formazione più adatta alla propria storia professionale e far registrare per fini di certezza pubblica tale formazione che andrebbe a arricchire il libretto digitale, anche a beneficio dei datori di lavoro che cercano certe professionalità e non altre. I centri per l’impiego potrebbero sgravarsi di quella parte di lavoro burocratico che tanta energia toglie per l’allocazione di persone nel mercato del lavoro. Le agenzie di somministrazione sarebbero agevolate nella condivisione di curriculum e professionalità.
NOTE
[1] L’espressione risale al secondo secolo d.C. e viene attribuita a Ireneo di Lione.
[2] Per esemplificare si pensi alle intuizioni di alcuni ordini religiosi (exp. vincenziani, gesuiti, salesiani) o associazioni laiche (exp. Comunità di Sant’Egidio, ACLI) trasformate in opere sociali (scuole, centri di formazione professionale, ospedali, case per orfani, accoglienza per rifugiati e migranti, strutture per donne abusate e vittime di violenza, sostegno alle vittime di dipendenze da droghe e alcool, unità di missione per la protezione dell’ambiente, etc.).
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