In tutti noi sussiste, infatti, una potente e spesso inconsapevole propensione alla violenza e alla distruttività, tanto che la guerra sembra costituire una costante di tutta la storia planetaria che conosciamo. Lungo il XX secolo abbiamo visto crollare le illusioni illuministiche e anche marxistiche, che vedevano il male solo come un effetto di ingiustizie sociali, rimosse le quali l’umanità avrebbe conosciuto un’epoca di pace e di prosperità. Le guerre mondiali, i campi di sterminio, le violenze dei totalitarismi, la tirannide comunista ci hanno mostrato in modo nuovo e sconvolgente quanto abissale sia invece il cuore dell’uomo, contraddittorio e potenzialmente violento. Parimenti la psicoanalisi, la filosofia esistenziale, l’arte e la letteratura hanno sondato gli abissi inferi dell’anima umana, rivelando la sua furibonda brama di morte e di distruzione: “un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” (Salmo 63,7).
Potremmo dire che il XX secolo riproponga in vario modo un’antropologia dell’uomo ferito, abitato da abissalità oscure e inconsce, da furie e pulsioni quasi incoercibili. E’ questa ferita lancinante, che spezza il cuore di ogni uomo, e che ci fa sentire sempre in colpa, scissi, incompiuti, la vera causa originaria della nostra violenza: l’essere umano è violento, è aggressivo, avido, bramoso, invidioso, e omicida, proprio perché è radicalmente infelice, lacerato, disperato, letteralmente fuori di sé, alienato. Cosa d’altronde ben nota all’antropologia spirituale cristiana: “Non è vero che l’uomo nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione, e da altra angolazione: gli oppressori – sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’alienazione dell’uomo, anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale” (J. Ratzinger).
Ecco perché oggi risulta del tutto vano predicare la pace e la non violenza senza prenderci carico della condizione interiore dell’umanità concreta. Sarebbe come predicare ad un malato terminale di saltare con l’asta, continuando a ripetere quanto sia bello e opportuno superare i due metri. Dobbiamo definitivamente uscire dal moralismo e dall’ideologismo, per entrare in un’ottica più propriamente terapeutica e spirituale: la violenza è cioè una malattia, l’effetto inevitabile di una alienazione radicale, per cui è a quel livello che dobbiamo lavorare, se vogliamo per davvero educare qualcuno alla pace.
In base alla fede cristiana è solo la rinascita nello Spirito di Cristo che ci può risanare, guarire la nostra ferita, e donarci una vita finalmente integra, e liberata dagli effetti del peccato, che ci separa da Dio e quindi ci inimica ogni uomo. Il problema che oggi si propone però è questo: in che misura i cristiani hanno fatto e fanno esperienza di questa riconciliazione interiore? Come mai, lungo questi secoli cristiani, nelle nostre civiltà e società “cristiane” la violenza ha continuato a dominare con tanta virulenza? Come possiamo entrare in un’epoca nuova di maggiore realizzazione del miracolo della nostra guarigione profonda? Che cosa può significare cioè una nuova evangelizzazione-pacificazione innanzitutto dei cristiani?
L’educazione alla pace insomma oggi si presenta come un’urgente necessità su due livelli distinti e correlati, uno spirituale e l’altro politico-pedagogico: da una parte si tratta di rinnovare radicalmente gli itinerari iniziatici cristiani, affinché la pace di Cristo venga sperimentata quotidianamente come il balsamo che cura la nostra disperazione, e che ci libera di conseguenza dalla violenza che essa produce. Mentre dall’altra siamo chiamati a formulare cammini educativi per tutti, del tutto laici cioè, dall’asilo alle formazioni professionali, che comunque si prendano cura del cuore ferito dell’uomo, e cioè della sua strutturale alienazione, e lo aiutino a camminare verso stati di maggiore integrità/felicità, per rinnovare così alla radice le forme deteriorate e spesso terminali della nostra convivenza urbana, nazionale, e planetaria.
Questo comporta ovviamente una grande sperimentazione pedagogica e spirituale, che sappia comporre in modo efficace diversi livelli formativi. Oggi infatti abbiamo bisogno sia di strumenti interpretativi molto più adeguati alle sfide epocali in atto, e cioè di una nuova cultura della trasformazione (livello culturale), sia di conoscere molto più a fondo le nostre forme psichiche difensivo-aggressive, e cioè come continuiamo a chiuderci, a isolarci, a odiare, e a mettere a distanza gli altri, spesso senza nemmeno accorgercene (livello psico-esistenziale). E infine abbiamo bisogno anche di placare la nostra mente affannata, e quindi spesso violenta, insegnandole a placarsi, a respirare, e a dilatare la sua visuale interiore, in quanto, come dice il profeta Isaia:
“Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza,
nell’abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30,15).
Questo metodo integrato di educazione alla pacificazione va poi trasmesso attraverso relazioni calde, di gruppo, e di accompagnamento fraterno e prolungato, come cerchiamo di fare da 18 anni nei nostri Gruppi, denominati appunto Darsi pace.
La guerra insomma è innanzitutto e sempre di nuovo dentro il cuore dell’uomo, di ogni uomo, e in ogni momento. Sorvolare su questa realtà attardandoci ancora su considerazioni estrinseche, solo morali o sociali, significa semplicemente incrementare la rabbia delle nostre parti scisse e inascoltate. Dobbiamo invece imparare ad ascoltarle fino in fondo queste parti furenti e addolorate, a riconoscere la loro forte presenza e influenza dentro di noi, affinché possano essere corrette, e le loro energie distruttive possano venire convertite in energie creative, e per davvero capaci di costruire relazioni pacificate.