Si può e forse si deve accettare questa conclusione, senza per questo dimenticare la lezione di Tocqueville sui rischi che la democrazia corre quando la conciliazione del principio di libertà e della necessità che ogni comunità sia appunto governata viene ridotta alla semplice garanzia della legittimazione elettorale: tutti i cittadini votano, ma per tornare subito dopo ad essere nulla più che «una folla innumerevole» intenta a curare i propri interessi e pronta ad affidarsi per il resto ad «un potere unico», che deve preoccuparsi solo del prossimo giudizio delle urne.
La riforma della Costituzione e quella della legge elettorale di Matteo Renzi, come viene sottolineato da molti commentatori, danno alla forma della repubblica parlamentare nata dopo la seconda guerra mondiale la sostanza di un presidenzialismo per il quale si vorrebbero i correttivi tipici di questo modello, ad evitare che la personalizzazione inevitabile si trasformi in un leaderismo ipertrofico. E le soluzioni che vengono più frequentemente proposte corrispondono ad un catalogo ben noto. Accettando di pagare alla stabilizzazione del rapporto fra Parlamento e Governo il prezzo di un oggettivo indebolimento del ruolo del primo, per esempio, si chiede di rafforzare la autonomia e indipendenza dei contrappesi istituzionali, a partire dalla Presidenza della Repubblica e dalla Corte Costituzionale, evitando in particolare che una minoranza trasformata dalla legge elettorale in maggioranza parlamentare possa scegliere autonomamente i “controllori” del suo operato. Il diritto di tribuna delle minoranze, un rapporto fra eletti ed elettori che non si riduca ad un segno di matita su un elenco di nominati, uno spazio adeguato concesso al Parlamento per predisporre e discutere un’agenda che non coincida semplicemente con quella del Governo sono tutti strumenti importanti per garantire il ruolo e la dignità della rappresentanza parlamentare in un contesto profondamente diverso come quello che si va profilando sotto la poderosa spinta riformatrice del giovane leader del Pd. Ci sono però almeno altre due linee di riflessione che sono rimaste finora ai margini del dibattito e che meriterebbero proprio per questo maggiore attenzione.
La prima è quella dei limiti temporali del potere del leader. In una repubblica esplicitamente presidenziale (si pensi all’esempio degli Stati Uniti) è abbastanza normale prevedere un limite al numero dei mandati, sul presupposto che alla democrazia non fa comunque bene che un potere molto grande rimanga a tempo indeterminato nelle mani della stessa persona, anche se “è il popolo che lo vuole”. È lo stesso Presidente del Consiglio ad aver dichiarato in numerose occasioni che non intende restare alla guida del paese per più di dieci anni, ma una questione così importante non può essere lasciata alla volontà del leader. Si adotti dunque davvero, magari attraverso una modifica dell’articolo 92 della Costituzione, il modello del Sindaco d’Italia, prevedendo un vero e proprio obbligo di congedo. E si aggiunga magari la riduzione di un anno della durata delle legislature, comunque opportuna nel momento in cui ad assicurare la stabilità della maggioranza parlamentare non è la volontà degli elettori ma il premio assicurato dalla legge elettorale.
Il secondo obbligo che varrebbe la pena di considerare è quello di fare squadra. La rinuncia all’uso del nome dei leader nei simboli di partito può essere sicuramente un primo passo per limitarne la sovraesposizione mediatica. Si potrebbe tuttavia pensare anche ad uno strumento più forte per contenere quella che potrebbe altrimenti diventare una chiusura solitaria del rapporto fiduciario con il popolo sovrano. Tutti sono ormai consapevoli che, con la stessa scheda, si scelgono di fatto sia i parlamentari sia il Capo del Governo. All’aspirante Presidente del Consiglio si potrebbe chiedere di presentarsi insieme a coloro che diventeranno ministri, almeno con riferimento ai dicasteri più importanti. Gli elettori sarebbero così chiamati ad esprimersi su una squadra e non solo sul suo capitano. Si avrebbero, durante la campagna elettorale, confronti diretti anche fra i potenziali ministri dell’Economia, degli Interni, degli Esteri. E così via. Diventerebbe più difficile vedere e scegliere solo il leader. La governabilità non ne risentirebbe. E ne uscirebbe rafforzata un’idea meno “monarchica” della democrazia. Qualcuno è interessato a parlarne?