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La democrazia che, come insieme equilibrato di poteri, ha i suoi fondamenti nella partecipazione popolare e nella classe politica, si è trasformata in un’iperdemocrazia basata sul voto e sull’opinione pubblica. Risultato: la rarefazione della partecipazione e il diffondersi di un’idea di democrazia ridotta a scelta elettorale di una maggioranza di governo, il cui leader è espressione diretta della volontà popolare

La politica, nelle forme in cui la conosciamo, è questione recente nella storia dell’uomo. Fino alla nascita degli stati moderni, si configurava prevalentemente su questioni che interessavano la difesa dei confini, la gestione dell’ordine pubblico, le relazioni tra chi deteneva il potere. Molti aspetti della vita quotidiana erano affidati a principi regolatori iscritti spesso su un piano teologico o filosofico. Oppure ispirati a quelli che, oggi, potremmo definire interessi "privati".

Solo con l’epoca moderna comincia progressivamente ad affermarsi una politica che contempla grandi questioni pubbliche che riguardano le relazioni tra le classi sociali, i diritti civili, i temi dello sviluppo, edificando intorno ad essi apparati ideologici di riferimento per grandi masse di cittadini. Un processo che ha il suo apice nelle ideologie e nei partiti di massa del Novecento e che entra in crisi, alla fine del secolo scorso, con il progressivo affermarsi di una società de-ideologizzata, con rilievi economici e sociali inediti e sfuggenti a ogni sforzo interpretativo basato sui paradigmi precedenti.

La crisi delle grandi teorie politiche che per oltre mezzo secolo avevano ispirato la partecipazione dei cittadini, oggi ha il suo riflesso in una società dalle identità collettive rarefatte, caratterizzata da una convivenza a bassa intensità sociale e dal recedere delle forme legate alla tradizionale partecipazione politica (basti pensare alle elezioni regionali di qualche settimana fa).

La fase politica che prende avvio all’inizio degli anni ‘90 è segnata dalla progressiva eclissi della responsabilità politica e al venir meno di quell’etica istituzionale che invece aveva costituito il nucleo forte dei partiti di massa del Novecento.

La democrazia formale è stata via via considerata un impaccio caro ai giuristi mentre si è progressivamente affermata la convinzione che bisogna sintonizzarsi sulle pulsioni delle persone anziché rafforzare i diritti dei cittadini.

Altra caratteristica della politica attuale è una generalizzata caduta delle tensioni progettuali in chiave universalistica. Un abbandono che si esprime in quel nichilismo tanto caro ai leader solitari di oggi che può essere efficacemente riassumibile nelle parole di Nietzsche quando lo descrive come un processo dove i valori supremi si svalutano, dove manca lo scopo e una risposta ai perché.

E’ un pensiero debole quello che, oggi, pervade la politica, dove il relativismo finisce per essere una sorta di premessa largamente condivisa, perché le procedure non obbediscono ad alcun criterio riconoscibile: non ci sono più i fatti, né i metodi, né le certezze, ma solo interpretazioni.

D’altronde, il progettare grandi mete non si addice a un pensiero debole e l’avvenire resta un interrogativo senza risposta per una politica timorosa di inoltrarsi in un futuro che non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte. La stessa importanza del passato cambia di segno nel momento in cui i leader cercano di liberarsi da un’idea della storia come un corso omogeneo e necessario che ci avrebbe sospinto fin qui e che, con lo stesso impeto ci porta verso il futuro.

Al modello di ragione universale e forte del Novecento si contrappone ormai una costellazione di razionalità parziali e di nuovi linguaggi. Foucault l’ha chiamata “morte dell’uomo”, altri si sono limitati a parlare di fine della ragione. Per l’individuo decentrato dal proprio passato e dal proprio futuro, non può diventare altro dal “non senso” del vivere in un mondo di dissolvenze dal quale, però, sembra travolto.

La democrazia che, come insieme equilibrato di poteri e contropoteri, ha i suoi fondamenti nella partecipazione popolare e nella classe politica, si è trasformata inevitabilmente in un’iperdemocrazia basata sul voto e sull’opinione pubblica. Il risultato è la rarefazione della partecipazione politica e il diffondersi dell’idea che la democrazia sia esclusivamente la scelta elettorale di una maggioranza di governo, il cui leader è espressione diretta e organica della volontà popolare, concepita a sua volta come la sola fonte di legittimazione dei pubblici poteri del “capo”.

Quest’idea di democrazia è ormai considerata la forma più diretta, decidente e partecipativa. In realtà, è una deformazione che ha progressivamente eluso i principi costituzionali riproducendo, in termini parademocratici, una tentazione pericolosa che è all’origine di tutte le demagogie populiste e autoritarie: l’idea del governo degli uomini o, peggio, di un uomo.

Ma, come scrive Hans Kelsen, l’idea di democrazia implica assenza di capi. E, nel farlo, ricorda le parole che Platone, nella sua Repubblica, fa dire a Socrate in risposta alla domanda su come dovrebbe essere trattato, nello Stato ideale, un uomo dotato di qualità superiori: “Noi l’onoreremmo come un essere degno d’adorazione, meraviglioso ed amabile; ma dopo avergli fatto notare che non c’è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che non deve esserci, untogli il capo ed incoronatolo, lo scorteremmo fino alla frontiera”.

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