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Superare il Porcellum è banco di prova per la capacità italiana di rinnovare le istituzioni democratiche. Il percorso di riforma della Legge elettorale, in discussione da oltre 30 anni, è estremamente complesso perché entra in rapporto con le norme costituzionali sulla forma di governo, col sistema dei partiti e con la cultura politica.

La riforma della legge elettorale è in agenda in Italia dalla fine degli anni ottanta. Dopo la riforma seguita al referendum del 1993, la questione è rimasta aperta, in quanto molti ritenevano che il sistema prevalentemente maggioritario previsto dal Mattarellum dovesse essere completato, eliminando i residui di proporzionale in esso presenti.

Dopo la riforma del 2005, il c.d. Porcellum ha goduto quasi sempre di cattiva stampa. Oggi se ne invoca da alcuni una riforma immediata, in modo da assicurare che le prossime elezioni non si svolgano con questa legge. Altri sottolineano invece che occorre abbinare la riforma elettorale con quella della Costituzione, e in particolare con la riforma del bicameralismo.

La legge elettorale attuale è caratterizzata da tre elementi di fondo:
a) la competizione si svolge fra liste di candidati – corrispondenti di norma a partiti politici – in circoscrizioni plurinominali di grandi dimensioni (nelle maggiori si eleggono oltre 40 deputati);
b) l’elettore esercita il diritto di voto scegliendo una lista di partito e non può esprimere preferenze per i candidati inseriti nelle liste;
c) il riparto dei seggi avviene in ragione proporzionale ad i voti ottenuti, ma con due fondamentali correzioni:
   c1) le liste che non raggiungono una soglia di sbarramento sono escluse dal riparto;
   c2) la lista o coalizione di liste che ottiene il maggior numero di voti consegue un premio di maggioranza (non vi è un voto per la coalizione, ma il voto al partito si trasferisce automaticamente alla coalizione di cui esso fa parte).

Queste due correzioni operano poi in maniera diversa alla Camera ed al Senato: mentre alla Camera esiste uno sbarramento del 4 per cento per le liste individuali, che scende però al 2 per cento per le liste inserite in coalizioni che superino il 10 per cento dei voti, al Senato lo sbarramento è al 3 per cento per le liste coalizzate (purché la coalizione di cui fanno parte superi il 20 per cento) e all’8 per cento per le liste non coalizzate. Diverso è anche il modus operandi del premio di maggioranza: alla Camera esso opera su scala nazionale e conferisce pertanto la maggioranza dei seggi alla lista o coalizione di liste che ottiene il maggior numero di voti; al Senato esso opera su base regionale, con la conseguenza che è probabile che il combinarsi dei premi regionali non produca una maggioranza nell’assemblea.

Le critiche a questo sistema elettorale sono state molteplici.
In primo luogo si è ritenuto che le liste bloccate (anche per la loro lunghezza) privino l’elettore di un rapporto diretto con i parlamentari (per i quali si è parlato addirittura di “nominati”, alludendo al fatto che essi sarebbero scelti dai partiti, non dagli elettori).
In secondo luogo, si è criticata l’eccessiva ampiezza del premio di maggioranza previsto per la Camera, soprattutto il fatto che non sia prevista una soglia minima perché esso scatti.
In terzo luogo il diverso modus operandi dei due premi di maggioranza – alla Camera ed al Senato – è stato ritenuto irragionevole. Infine, è stata censurata la possibilità delle candidature multiple, in diversi collegi elettorali (che è stata effettivamente utilizzata da vari leaders di partito, contribuendo così ad accentuare la natura “personale” di molti partiti italiani.

Fra l’altro, le prime due critiche si sono tradotte in questioni di costituzionalità, che alcuni mesi orsono la Corte di Cassazione ha posto alla Corte costituzionale, la quale si pronuncerà verosimilmente alla fine dell’anno.
Se le critiche al Porcellum sono ormai unanimi (esso non è difeso neppure da Casini e Calderoli, i suoi autori politici), non vi è però unanimità su come riformarlo. E ciò non deve stupire: la legge elettorale è la più importante fra le leggi ordinarie in materia di organizzazione dello Stato. Essa è strettamente connessa con le norme costituzionali sulla forma di governo, col sistema dei partiti e con la cultura politica. In particolare, se si muove dall’idea che la legge elettorale debba favorire la formazione di una maggioranza parlamentare, il tema della riforma elettorale cozza con il bicameralismo perfetto, specialmente in un contesto politico ormai tripolare, come quello delineatosi dopo le elezioni dello scorso febbraio (in ben 3 delle 6 elezioni svoltesi col sistema maggioritario – quelle del 1994, del 2006 e del 2013 – la maggioranza del Senato non coincideva con quella della Camera).

Fra le molte proposte di riforma si può comunque menzionare quella della Commissione per le riforme costituzionali nominata dal governo Letta (i c.d. “saggi”), la quale ha suggerito – sia pure come proposta prevalente e non come proposta unanime o esclusiva – che il Porcellum sia corretto in due punti fondamentali: da un lato inserendo al suo interno la possibilità per gli elettori di esprimere un voto di preferenza (o, in alternativa, un sistema di collegi uninominali per una quota dei deputati da eleggere) e dall’altro prevedendo che qualora nessun partito o coalizione di partiti ottenga la maggioranza dei seggi, si faccia luogo ad un secondo turno elettorale, nel quale la forza più votata conseguirebbe la maggioranza dei seggi (dunque come accade oggi, ma sulla base della maggioranza dei voti che la forza politica vincitrice acquisirebbe nel secondo turno elettorale, non sulla base di una maggioranza relativa anche molto debole). Ma questa soluzione presuppone il superamento del bicameralismo paritario, per il quale è necessaria una riforma costituzionale (che dovrebbe mettere a norma il nostro regime parlamentare con gli standard europei). Ancora una volta si vede come il rapporto fra riforme elettorali e riforme costituzionali è assai complesso: le due dimensioni sono intrecciate e oggi l’una richiede l’altra.

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