Una delle intuizioni teoriche più suggestive (e a dire il vero anche più complesse) della filosofia classica è quella che prova a stabilire un nesso tra unità, verità, bontà e bellezza. Nel lessico tecnico si tratta di caratteristiche “trascendentali” di tutto quel che incontriamo, caratteristiche connesse cioè al semplice fatto che una certa cosa esista, che sia – nel lessico dei filosofi – un ens, un ente. Se la cosa vi sembrerà astrusa non c’è da temere, lo è davvero: siamo nel campo della “metafisica” (chi ha spiegato al meglio la faccenda è Tommaso d’Aquino, nel De Veritate) e qui i termini, talvolta, hanno significati ormai distanti dal linguaggio comune. Mi pare però interessante provare ad agganciare questa antica lezione parlando di comunità e lavoro in relazione alla bellezza, perché può aiutare a cogliere qualche sfumatura non del tutto scontata sul valore del “bello”.
Tento allora una traduzione di questa “pagina” classica di filosofia.
I filosofi premoderni hanno cercato di comprendere i diversi punti di vista da cui possiamo accostarci a tutto ciò che ci circonda e che attira la nostra attenzione. Una delle prime cose che hanno notato è che nulla è semplice, ogni cosa può essere scomposta in parti più elementari ma al tempo stesso più essere a sua volta parte di qualcosa di più complesso. Vale anche per una “comunità”: unisce più persone, ma più comunità locali possono unirsi in una UTI o in una Regione… Ci è connaturale allora riconoscere il valore dell’unità, intesa come capacità di integrare e di integrarsi: è un po’ come dire che la nostra stessa intelligenza ha un fiuto naturale che la porta a cercare le connessioni e i legami, che sono la prima chiave per capire la realtà. L’unità e l’integrazione le percepiamo nelle nostre corde e le riconosciamo come la trama intima del mondo.
Il secondo punto di vista riguarda l’accessibilità della realtà: la verità, nella definizione classica, non si riferisce tanto alla possibilità della menzogna, quanto a quella di poter effettivamente comprendere quel che ci sta dinanzi, riuscendo ad esprimerlo e a condividere le nostre scoperte attraverso concetti, parole e linguaggio. Veritas est adaequatio intellectus ad rem: quella del rimanere aderenti alla realtà nel pensare è una sfida sempre aperta, e in effetti può essere importante ritornare di quando in quando anche sui concetti di cui ci serviamo per assicurarci, quando discutiamo, di avere tutti in mente la stessa cosa. Cosa intendiamo per “comunità”? Jacques Maritain (nella foto) ha dato indicazioni interessanti per distinguerla dal concetto di “società”, per esempio. E cosa intendiamo per “lavoro”, ricordandoci che labor, laboris significa “fatica”, e magari può essere provocatorio meditare sul fatto che la Costituzione ci avverte che la nostra è “una Repubblica democratica fondata sulla fatica”, non sulle illusioni di felicità a buon mercato.
Sul tema della “bontà” si discute anche da sempre: davvero si può dire che ogni cosa che esiste sia “buona”? Quante realtà di male ci vengono in mente… Eppure anche qui il discorso è più radicale. Nella definizione che risale ad Aristotele (nell’immagine di fianco) “bonum est quod omnia appetunt”: il “bene” è ciò di cui siamo costantemente alla ricerca, è ogni cosa che potrebbe rendere migliore la nostra esistenza riempiendo un vuoto. E qui la lezione antica diventa un promemoria che riguarda da vicino la nostra umanità: noi siamo desiderio, facciamo continuamente i conti con dei vuoti da riempire, e questo ci mette in movimento, ci spinge a progettare, a organizzarci per raggiungere quel che ci attrae. Per questo possiamo dire che tutto quello che entra nel nostro campo di interesse, quantomeno per qualche aspetto, si candida ad essere “buono”. E se riesce ad agganciare la nostra attenzione allora stiamo certi che per raggiungere quel qualcosa daremo battaglia al mondo. In cosa consiste dunque il “buono” della dimensione comunitaria? Quali vuoti colmano i legami sociali? E in cosa consiste poi il “buono” della fatica, sapremmo esprimerlo? Quali “beni” si intravedono dietro alle nostre battaglie sociali? Sono beni per pochi o beni “comuni”?
E, infine, arriva il bello. Qui il linguaggio comune curiosamente ci aiuta, perché siamo in effetti abituati a porre la bellezza in fondo, come quando diciamo a chi già si riconosce soddisfatto per qualcosa che “il bello deve ancora venire”. Il bello – pulchrum, delectabilis – è l’ultimo dei trascendentali e a dire il vero è considerato dai metafisici una sfaccettatura del bene: è il bene raggiunto e goduto, che si rivela autentico e che offre ristoro. La bellezza è connessa al fermarsi, al poter sostare per contemplare e gustare le cose. Tutte le cose, potendo ospitare dei profili di bellezza, è come se ci invitassero anche a rallentare, a non risolvere la vita nel correre e nel continuo passare di desiderio in desiderio. La bellezza ci richiama alla necessità di darci un ritmo, forse anche quel ritmo che i giorni di festa vorrebbero assicurare alle nostre comunità, cadenzando la fatica (il lavoro) e il riposo, più il riposo meditativo che non quello diversivo, di cui pure abbiamo bisogno, beninteso, ma forse non nel nella misura in cui ci siamo abituati a ricercarlo.
Se allora il bello si rivela nella sosta contemplativa – non è forse questo anche il messaggio del grande racconto biblico della Creazione? – forse potremmo considerare che proprio questa capacità di interrompere la corsa per scrutare le profondità rappresenta una virtù civica e politica essenziale: gustare la bellezza, se vale un po’ l’antica lezione, è mettersi nelle condizioni più favorevoli per scorgere il bene da desiderare per tutti, per trovare le parole migliori per esprimerlo e condividerlo, per sentire l’appello radicale a scegliere, nelle comunità e nel lavoro, le vie dell’integrità e dell’integrazione.
Tags: bellezza bontà comunità unità verità