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Non possiamo costruire un ” futuro infelice”. Emerge la scelta di una via alta dello sviluppo, fondato su riqualificazione industriale, ricerca, formazione, prodotti ad alto contenuto tecnologico e di conoscenza, bellezza, rispetto dell’ambiente, con una governance territoriale condivisa tra pubblico e privati per rimettere la comunità ed il lavoro al centro. È il tempo dei “costruttori” di futuro evocati dal Presidente Mattarella, di una nuova classe dirigente a tutti i livelli capace di generare visione condivisa di uno sviluppo possibile. È il tempo dell’economia civile, circolare e di comunione nel nostro Paese.

In occasione dell’attuazione dei progetti e delle riforme del PNRR, dobbiamo comprendere quale futuro è possibile per le nuove generazioni in Italia ed in Europa. Quale sviluppo può tenere insieme crescita, giustizia sociale, bellezza, sostenibilità, economia civile? Per raggiungere questi obiettivi il nostro Paese deve adattarsi ai mutamenti internazionali in corso, perdere in fretta i suoi antichi vizi mediante serie riforme strutturali nella Pubblica Amministrazione, giustizia, concorrenza, sanità, ricerca, scuola e Università, supplire alla decadenza dei campioni del capitalismo con una rete efficiente di grandi e medie imprese, forme varie e diffuse di economia civile e sostenibile, nuovo capitale umano, finanziario e sociale. Difficile non parlare di declino. Il Pil pro capite nel 2001 era superiore del 23 % alla media europea.  Oggi è sotto del 5%. Sono scomparse 240 mila imprese, mentre ne sono nate appena 94 mila. In un quadro di drammatico invecchiamento, il tasso di occupazione è sotto di 10 punti così come la produttività oraria.

Come fa allora il Bel Paese ad essere ancora la seconda manifattura in Europa, al settimo posto dei Paesi produttori nel mondo, al nono di quelli esportatori? F. Ramella, in Il Mulino 1/2021, offre un’analisi convincente per smentire le cupe previsioni dell’Economist sul “malato d’Europa”. In Italia si sono sempre confrontati due modelli di sviluppo, quello della industrializzazione in grande, basato sulle grandi imprese e quello della industrializzazione in piccolo, quello delle piccole e medie imprese che rappresentano quasi il 70 % del fatturato nazionale (Berta G., Che fine ha fatto il capitalismo italiano?  Il Mulino, 2016).

I dati confermano che i Paesi sviluppati, negli ultimi venti anni, non hanno abbandonato la manifattura ma dopo una iniziale delocalizzazione stanno investendo in industria 4.0 con innovazioni tecnologiche in imprese di medie dimensioni, attente all’ ambiente, radicate nel territorio. Si è esaurita la industrializzazione in grande. Occorre pensare ad un modello alternativo, più vicino alle forme dell’economia civile, circolare, sostenibile sul piano sociale ed ambientale.  Grande attenzione nel Bel Paese deve essere rivolta allora al mondo della cultura, del turismo, dell’enogastronomia. In altre parole dobbiamo irrobustire e far crescere in dimensione le piccole e medie imprese, pilastri della nostra industrializzazione. Il “calabrone “Italia” di G. Becattini, vola con performance migliori nei distretti industriali. Il ” quarto capitalismo ” delle multinazionali tascabili rivela una vitalità sorprendente nonostante le crisi ricorrenti della globalizzazione. Parliamo di circa 3500 imprese che hanno conquistato fette di mercato estere puntando su qualità, specializzazione italiana, flessibilità organizzativa sul mercato. Hanno raggiunto il 20% delle esportazioni manifatturiere triplicandole negli ultimi 20 anni. Questa è una integrazione realistica alle grandi imprese, che devono rimanere invece in settori strategici dell’economia nazionale.

Le PMI hanno legami più forti con il territorio e sono meglio disposte a creare ” valore comune”, quello studiato da M. Porter e M. Kramer. Sono più vicine al paradigma dell’economia civile italiana. Serve tuttavia una politica industriale consapevole che piccolo non è sempre bello, come dimostra la moria di piccole imprese dal 2008. Senza adeguate dimensioni aziendali è impossibile infatti la transizione tecnologica e digitale che è alla base della competitività internazionale, basata su qualità, produttività, capitale umano, organizzazione e competenze. Pertanto il mercato non va lasciato a sé stesso ma lo Stato, gli Enti locali, le Università ed il Terzo Settore devono fornire servizi avanzati e beni collettivi per consentire la transizione digitale ed ecologica in un quadro di coesione sociale. Si comincia ad intravvedere il ruolo positivo dello Stato dopo l’illusione monetarista di Milton Friedman degli anni Settanta, secondo il quale le forze di mercato risolvono tutto. Grave errore teorico e pratico, alla luce delle crisi del 2008 e del 2020, insieme alla teoria del New Public Management che ha favorito esternalizzazione di servizi e privatizzazioni selvagge. Il contesto socio- istituzionale locale e nazionale deve cambiare offrendo servizi efficienti della PA, formazione umana e professionale adeguata, infrastrutture materiali ed immateriali, soprattutto al Sud e nelle aree interne.

È possibile allora un nuovo modello di sviluppo basato su economia civile, circolare, sostenibile, integrato da una seria politica industriale nazionale con grandi imprese a controllo pubblico e con una vasta rete di PMI da radicare ora anche al Sud ed in aree interne. Un’ indagine recente del Centro ” Luigi Bobbio” dell’Università di Torino afferma che anche tra gli imprenditori si punta ad una qualità dello sviluppo, capace di tenere insieme crescita, coesione sociale, sostenibilità, comunità, qualità della vita e non solo massimizzazione del profitto incurante dell’ambiente e della dignità delle persone. Non possiamo costruire un ” futuro infelice“. Emerge la scelta di una via alta dello sviluppo, fondato su riqualificazione industriale, ricerca, formazione, prodotti ad alto contenuto tecnologico e di conoscenza, bellezza, rispetto dell’ambiente, con una governance territoriale condivisa tra pubblico e privati per rimettere la comunità ed il lavoro al centro. È il tempo dei ” costruttori” di futuro evocati dal Presidente Mattarella, di una nuova classe dirigente a tutti i livelli capace di generare visione condivisa di uno sviluppo possibile. È il tempo dell’economia civile, circolare e di comunione nel nostro Paese.

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