Da circa 10 anni a Roma, dopo gli studi e il dottorato di ricerca in sociologia urbana a “La Sapienza” Università di Roma con il sociologo che per primo andò a interrogare e incontrare tra il fango chi viveva nelle baracche della sterminata periferia romana – Franco Ferrarotti – decisi di fondare una associazione culturale che avesse come scopo e valore quello di far conoscere genesi problemi e opportunità delle borgate o dei percorsi “non turistici”. La chiamai Ottavo Colle, il colle che pochi raccontano, quello non attraversato dal turismo di massa come gli altri sette e trascurato anche dagli amanti dell’archeologia perché ingenuamente si crede che l’impero romano abbia concentrato la costruzione di quelle che oggi sono le sue vestigia, nel “centro storico”. Per smentire questa visione basti citare per tutti la bellezza del Parco degli Acquedotti, che si trova piuttosto lontano dal cosiddetto tridente. Anni dopo ho ritrovato nella lettura dell’enciclica Laudato sì’ quella sollecitazione alla gestione di progetti di conservazione e valorizzazione di beni della collettività come il paesaggio, la piazza, i monumenti ecc. per mantenere e sviluppare relazioni e nuovi legami sociali che costituì parte di quelle riflessioni che avevano mosso il mio impegno nella formazione alla città.
Tanti sono stati successivamente i progetti e interventi formativi nei quali siamo stati coinvolti. Se ci soffermiamo a riflettere, nei programmi formativi è assente una pedagogia della città: nessuno ci insegna ad educare quegli “occhi sulla strada” che Jane Jacobs nel saggio che ha ispirato migliaia di urbanisti “Vita e morte delle grandi metropoli americane” (1961) legge e propone non in una ottica securitaria di controllo sociale, ma come un addestramento ad innamorarci delle vie, delle piazze, degli arredi urbani per rispettarli come traiettorie fisiche di relazione e-di conseguenza-a curare le relazioni di vicinato. Nessuno o pochi illuminati docenti, insegna ai ragazzi a leggere criticamente come i media rappresentano i quartieri e il grande ruolo e responsabilità che hanno nell’attribuire stigma e pregiudizi che rimarranno incollati ad essi a scapito anche di evidenze lapalissiane. Il caso di Corviale a Roma è uno dei più eclatanti. Da anni puntualmente ogni volta che proponiamo qui un incontro, sui social media si scatenano commenti violenti fatti da chi non ci è nemmeno mai stato e viene descritto come un inferno in terra, un covo di malavitosi, un luogo dove ogni giorno avviene un crimine. Nessuno che si ricordi delle esperienze virtuose e uniche come il “Calcio sociale”, ad esempio e di altre “bellezze” al suo interno.
“La bellezza salverà il mondo” è una frase fin troppo abusata, come anche “La bellezza è negli occhi di chi guarda” che uno street artist ha voluto scrivere nel ponte di accesso ad una delle porzioni del palazzo lungo 1 km di Corviale. La frase è dell’autore russo Dostoevskij ed è pronunciata dal protagonista de “L’idiota” (1869). Tuttavia solo difendendo il nostro patrimonio potremo continuare a sostenere le ragioni di questa frase e con l’unica arma contro il progressivo declino della nostra società: la cultura e la sua divulgazione.
Rileggendo la Laudato sì’ si comprende la sua valenza di manifesto culturale anche alla luce della pandemia da Covid-19 sulla quale sembra rintracciare moniti su quanto sarebbe accaduto, per mano della nostra sventatezza nel considerare il pianeta o “la casa comune” a nostro uso e consumo; in questo manifesto si interroga severamente il nostro tempo e su inadeguatezze, eccessi, egoismi e disuguaglianze delle città e delle metropoli.
Non dobbiamo dimenticare che alla base del progetto urbano debba esserci la consapevolezza che siamo cittadini proprio solo se connessi ad un certo paesaggio di cui ci occupiamo ma per occuparcene consapevolmente, dobbiamo conoscerlo e rispettarlo.
Oggi più che mai dobbiamo tornare ad esercitare una cura dei luoghi in nome anche della bellezza insita nei quartieri periferici. Lo stesso Corviale, esempio di megastrutturalismo anche influenzato da una ideologia post movimento del 1968 dallo staff dell’architetto Mario Fiorentino, nasce per curare e sanare la drammatica situazione dei migliaia di romani che ancora agli inizi degli anni Settanta (e sarà così fino alla fine degli anni Settanta ed è così ancora oggi con la vergogna dei “campi” di cittadini rom) vivevano nelle baracche. Si dirà che anche questo progetto ha sofferto dell’eterogenesi dei fini perché di fatto questa sperimentazione urbanistica – come altre in Italia – si sono trasformate anni dopo in ghetti senza alcun servizio pubblico. Ma non per questo va dimenticato e de-storicizzato il contesto in cui questi progetti nacquero anch’essi alla ricerca della bellezza e di un “prodotto” che sapesse coniugare etica ed estetica.
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