Nessuno può dire oggi se la riforma della cittadinanza sarà approvata prima della fine della legislatura. Le posizioni delle diverse forze politiche sono però piuttosto chiare: opposizione da parte delle destre (Lega Nord, Fratelli d’Italia, Forza Italia); incertezza da parte di Alleanza Popolare (sebbene l’abbia già approvata alla Camera il 13 ottobre 2015); presa di distanza (e ipotesi di rinvio all’Unione Europea) da parte del Movimento 5 Stelle; pieno appoggio da parte del PD e di tutte le forze di sinistra.
A ciò si deve aggiungere il sostegno convinto dei Vescovi italiani e dell’associazionismo cattolico (ACLI, Comunità di Sant’Egidio, Caritas, Migrantes…).
Sembra infine che il governo Gentiloni sia determinato a mettere la fiducia sul voto al Senato, mentre rimane pressoché impossibile prevedere se si otterrà la maggioranza e se la nuova cittadinanza diventerà realtà.
Al di là di questo scenario politico, a noi sta a cuore nel presente contributo conseguire tre obiettivi: anzitutto ricordare come si diventa cittadini italiani con la vecchia legge 91 del 5 febbraio 1992 (tuttora vigente). Essa è basata non solo, come spesso si dice, sullo jus sanguinis ma anche su uno jus soli, per così dire, “ritardato” nel senso che per un figlio di genitori immigrati che nasce in Italia bisogna attendere ancora oggi il compimento del 18 anno di età prima di poter chiedere l’acquisizione della cittadinanza.
Il secondo obiettivo è mostrare come si diventa invece cittadini italiani alla luce della nuova legge la cui novità, tuttavia, non consiste tanto nello jus soli, come con eccessiva enfasi si è scritto, quanto nello jus culturae o jus scholae, nel senso che non è affatto sufficiente nascere in Italia per acquisire automaticamente la cittadinanza, ma è necessario apprendere la nostra cultura e riconoscersi in essa se si vuole diventare italiani.
Infine, il terzo obiettivo è quello di delineare come grazie a questa riforma sia possibile realizzare in Italia un modello più avanzato di integrazione che ponga il nostro Paese tra i più virtuosi in Europa rispetto alla promozione dei diritti degli immigrati e in particolare delle seconde generazioni.
Dopo 25 anni dal 1992 una nuova legge sulla cittadinanza appariva comunque necessaria se si considera che allora gli immigrati che risiedevano nel nostro Paese erano soltanto 573 mila mentre oggi sono oltre 5 milioni.
Il problema di fondo che si dovrà dunque affrontare è non lasciarsi intimorire dall’abilità con cui gli imprenditori della paura (taluni leader politici e organi di stampa) fanno leva sulla malafede e sulle fake news per affossare questa legge e spingere l’elettorato e l’opinione pubblica verso posizioni che oscillano tra xenofobia e neorazzismo.
Non è vero, infatti, che la nuova legge intenda regalare la cittadinanza a buon mercato, al contrario, essa prevede come conditio sine qua non molteplici e puntuali richieste da soddisfare: ad esempio, la regolare residenza di almeno 5 anni di uno dei due genitori, un reddito minimo, un’abitazione dignitosa, il superamento di un test di conoscenza della lingua italiana.
Viene fatto inoltre notare come sia abbastanza improprio e fuorviante presentare questa legge come basata sullo jus soli, dal momento che essa non prevede nessun automatismo, anzi, per questa sua tendenza a selezionare caso per caso sarebbe più corrispondente al vero se di essa si parlasse come di uno jus soli “temperato”.
Se infatti la compariamo con altre leggi sulla cittadinanza possiamo affermare che quella italiana appare tra le più prudenti ed equilibrate. Per esempio, negli Stati Uniti o in Brasile, la legge sullo jus soli è tale da consentire automaticamente a coloro che nascono in quei Paesi l’acquisizione della cittadinanza statunitense o brasiliana.
Attraverso la nuova legge l’Italia verrebbe così ad allinearsi con altre importanti democrazie europee quali Francia, Germania, Spagna ed Inghilterra.
Che la vera novità di questa legge sia costituita dallo jus culturae o, ancor meglio, dallo jus scholae sta essenzialmente nel fatto che ai bambini immigrati giunti in Italia prima di compiere 12 anni di età e che vi abbiano frequentato per almeno cinque anni (o più) cicli di scuola, viene concessa la cittadinanza in quanto già italianizzati dal sistema scolastico.
Analogo discorso va fatto per quei ragazzi che, pur essendo arrivati in Italia dopo aver compiuto 12 anni, vi abbiano però risieduto in modo permanente per almeno sei anni, frequentato un ciclo scolastico e conseguito un titolo conclusivo.
Dunque, la via “culturale” alla cittadinanza verrebbe a sostituire la precedente via “etnico-territoriale”. In estrema sintesi, due sono i canali principali previsti dalla riforma per diventare nuovi italiani: il primo, come già abbiamo visto, è lo jus soli “temperato”, grazie al quale si stima che potranno acquisire la cittadinanza circa 635 mila giovani che risiedono nel nostro Paese da oltre 5 anni; il secondo è lo jus culturae, o jus scholae, grazie al quale si stima che potranno accedere alla cittadinanza altri 166 mila ragazzi.
Insomma, più che apparire rivoluzionaria, la nuova legge si limiterebbe ad offrire alle seconde generazioni una riduzione dei tempi di attesa per diventare italiani.
A questo punto riteniamo opportuno mettere in risalto sia la forte valenza educativa di questa legge, sia il modello inclusivo di integrazione e di convivenza civile che essa favorisce proprio in quanto capace di valorizzare profondamente lo jus scholae o jus culturae, ossia la formazione scolastica e i valori culturali del nostro Paese.
Il disegno di legge da approvare in via definitiva al Senato presenta elementi di notevole significato: in primo luogo la rilevanza attribuita all’istruzione e alla scuola che diventa un ente certificatore delle raggiunte competenze di cittadinanza acquisite attraverso la frequenza conclusa con successo di un intero ciclo scolastico.
L’acquisizione della cittadinanza si trasforma così in un percorso dinamico, un processo graduale che si costruisce giorno per giorno mediante la condivisione di diritti e doveri, la partecipazione alla vita della scuola che coniuga apprendimento cognitivo ed alfabetizzazione affettiva e relazionale, tutti elementi che concorrono – come conferma la pedagogia contemporanea – alla formazione di un cittadino consapevole e responsabile.
Nessuna legge precedente aveva mai attribuito un riconoscimento così rilevante a quanto la scuola fa quotidianamente e in silenzio per garantire un pieno accesso all’istruzione, offrendo strategie di inclusione nel rispetto del dettato costituzionale.
In questo modo le nostre aule scolastiche operano ogni giorno come autentiche palestre di cittadinanza paritaria e partecipata e come laboratori di inclusione in cui le tante differenze diventano forme di arricchimento per tutti e di confronto dei diversi punti di vista. Nella scuola, insomma, si pongono le basi per una comunità non identitaria e difensiva ma aperta e dialogica, sempre disponibile a valorizzare le diverse specificità di ognuno.
Si pensi soprattutto a quelle differenze, ora più ora meno visibili, come ad esempio il color della pelle, il simbolo di una religione, un abbigliamento particolare, una singolare pratica alimentare: alla luce di questi segni di complessità ormai presenti sia nella scuola che nella società, la scelta di opporsi alla nuova legge di riforma della cittadinanza viene ad assumere una connotazione discriminatoria e del tutto ingiustificabile in quanto antistorica.
Non dovrebbe esserci nessun motivo per respingere una legge che guarda al presente e al futuro con senso di realismo, equilibrio e lungimiranza. La nostra profonda convinzione è che oggi l’Italia abbia bisogno di un colpo d’ala, di un atto di coraggio civile e di speranza, non certo di chiusure xenofobe e di logiche securitarie.
La costruzione di un’Italia plurale, sempre più interculturale e meticcia, sembra ormai appartenere al dinamismo delle trasformazioni in corso. Possiamo certo scegliere di prepararci o meno ai cambiamenti in atto da tempo, ma nessuno potrà mai riuscire a fermare il cantiere della storia!
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