Qualche anno fa la Caritas internazionale ha lanciato una campagna dal titolo “Climate justice” con l’obiettivo di rendere l’opinione pubblica consapevole del fatto che il tema dell’ambiente e quello della difesa del lavoro, della dignità della persona e della giustizia sociale non erano in conflitto. Come è noto infatti gli ultimi, i più poveri sono anche coloro che hanno meno risorse per potersi difendere dalle catastrofi ambientali e dalle loro conseguenze.
E’ oggi ormai ben noto che una quota rilevante dei migranti economici è causata dalla pressione sempre maggiore sulle risorse economiche che il riscaldamento climatico sta generando nella fascia subtropicale dove non a caso si trovano la grandissima parte delle aree in conflitto nel mondo. Nel corso degli ultimi decenni la superficie del lago Ciad, una risorsa fondamentale per l’economia di diversi stati del Sahel, si è ridotta a causa del riscaldamento e della siccità di 8 volte rendendo le popolazioni residenti nell’area molto più povere e molto più sensibili alle sollecitazioni dei gruppi radicali e fondamentalisti. Alla radice della crisi siriana e della progressiva esasperazione della violenza nella zona che è poi sfociata nella gravissima guerra civile tuttora in corso ci sono alcune rivolte sul cibo anch’esse provocate da fenomeni di carestia e da problemi climatici. Se non vogliamo certamente sostenere che il problema del clima spieghi da solo tutti i problemi descritti sopra siamo ormai certi che ne costituisce una concausa importante.
Se questa è la realtà, l’idea che ci possa essere un conflitto tra ambiente e lavoro, ha radici nell’idea che la tutela ambientale si debba perseguire riducendo l’attività economica o meglio la creazione di valore economica e dunque distruggendo posti di lavoro e riducendo di conseguenza anche le entrate fiscali da essi derivanti che possono andare ad alimentare le spese pubbliche per la lotta alla povertà e per la fornitura di beni pubblici come la sanità.
In economia sono sempre possibili circoli virtuosi e circoli viziosi. E’ evidente che esistano casi in cui la coperta sembra corta e uno di questi l’abbiamo proprio sotto i nostri occhi. A Taranto le vicende dell’Ilva sembrano porci di fronte ad una drammatica alternativa tra tenere alto il livello della produzione garantendo i posti di lavoro a scapito della salute della popolazione (che nei giorni di vento viene invitata da ordinanze del sindaco a tenere le finestre chiuse per evitare di inalare le polveri) o la riduzione/sospensione dell’attività per evitare danni alla salute o all’ambiente. La coperta corta però è sempre figlia della nostra mancanza di fantasia. Nell’economia esistono sempre infatti innumerevoli circoli virtuosi che possono essere messi in moto e che ci portano a superare il dilemma. Nella città europea di Linz (ma anche nei pressi di Udine) le acciaierie locali hanno da tempo investito in sostenibilità ambientale. Questo ha garantito loro la sopravvivenza e la competitività, il mantenimento dei posti di lavoro e la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini.
Lo spazio dei possibili circoli virtuosi appare quasi infinito e per fortuna l’umanità ha cominciato a capirlo. In realtà oggi il settore della sostenibilità ambientale rappresenta una delle principali opportunità di business per il pianeta. Le emissioni di obbligazioni verdi (green bonds) destinate unicamente al finanziamento di progetti di sostenibilità ambientale, in continua crescita (11 miliardi nel 2013 quasi 130 miliardi nel 2017), testimoniano che questo è uno dei settori più vitali dell’economia di oggi e di quella del futuro. L’economia è infatti sempre cresciuta per aumento delle varietà ed oggi si tratta di modificare tutta la nostra gamma di prodotti e processi di produttivi virando decisamente verso tecnologie che ci consentano risparmio di energia, emissioni di Co2 contenute ed economie circolari dove il riuso e il riciclo diventa il cardine del processo economico stesso.
Le stesse politiche ambientali nell’area più strategica come quella del Sahel sono un’incredibile opportunità di riconciliazione tra ambiente e giustizia sociale perché, con una sola mossa, è possibile ottenere tre obiettivi fondamentali. Abbiamo infatti a disposizione tecnologie molto semplici che, attraverso piccoli terrazzamenti che trattengono sul terreno le acque piovane, consentono di aumentare la fertilità dei terreni nell’area in un’ottica di agricoltura familiare. Promuovendo questo tipo di coltivazione ed evitando lo sfruttamento estensivo è possibile aumentare la creazione e la distribuzione del reddito nell’area, ridurre i flussi migratori e aumentare la cattura di CO2 contribuendo alla soluzione del problema del riscaldamento climatico.
Le potenzialità del land based approach (sostenuto fortemente dal nostro governo grazie all’opera di diplomatici come Grammenos Mastrojeni) al riscaldamento climatico sono evidenziate in un recente articolo del Guardian che titola ”la migliore freccia al nostro arco per raffreddare il pianeta può essere sotto i nostri piedi” e sintetizza efficacemente principali contributi scientifici in materia. Ecco un altro esempio nel quale ambiente, lavoro e giustizia sociale camminano di pari passo.
Tornando più a monte sul presunto “conflitto d’interessi” tra ambiente da una parte e lavoro, consumo e creazione di valore dall’altra il problema sta fondamentalmente nell’errata concezione del processo di creazione di valore in economia, erroneamente associato alla produzione di oggetti inquinanti. Rinnovando invece completamente la nostra gamma di prodotti e processi produttivi stiamo progressivamente dematerializzando o angelicando l’economia e il PIL. Prova ne è un rapporto sempre più importante oggi che è quello della quantità di CO2 emessa per unità di PIL. Più questo rapporto si abbassa e più stiamo imparando a decarbonizzare. In futuro la creazione di valore economico sarà sempre meno rappresentata da attività inquinanti e sempre più da attività immateriali a bassissimo impatto ambientale.