Come legge i risultati del Movimento 5 Stelle, conferimento soprattutto al Sud? Quanto ha pesato il tema del reddito di cittadinanza? Come interpreta il crollo del PD e il calo di Forza Italia?
E’ abbastanza complesso rispondere a questa domanda. La mia valutazione è che siamo in presenza non di uno tsunami improvviso ma di un fiume che è cresciuto progressivamente, e negli ultimi tempi molto velocemente. Basti pensare, ad esempio, alla risposta sul referendum 2016 che è venuta dal Sud, quando si è espresso palesemente un voto di protesta. Non credo che il reddito di cittadinanza sia stato decisivo; forse ha dato una spinta. Penso che ricondurre tutto a questo sarebbe un’interpretazione estremamente semplicistica. Come dire che Berlusconi ha trionfato, quando è entrato sulla scena politica la prima volta, per la promessa di un milione di posti di lavoro. I fenomeni sono più radicati, più complessi.
Mi pare che la questione sia quella del rifiutare gli schemi tradizionali della politica. Si potrebbero dire molte cose. Si potrebbe dire che la politica antica aveva la leva dell’assistenzialismo e della clientela che adesso si è asciugata. Anche questa spiegazione mi pare un po’ semplicistica. Il fenomeno è più grosso. Avanzano generazioni che hanno riferimenti ideologici pari a zero. Avanza un senso di protesta fortissimo. L’offerta politica per il Sud è stata insufficiente. Paradossalmente nel vecchio schema l’ultimo governo con Claudio De Vincenti ha fatto un buon lavoro, ma lo schema è superato. Non puoi avere una politica che si occupa di qualche intervento, anche buono (Masterplan per il Mezzogiorno, credito d’imposta, Resto al Sud), ma che ha una visione tradizionale.
Insomma l’impressione è che la distanza, non tanto tra i problemi della gente e la politica, ma dal linguaggio della gente, da quello che la gente pensa e la politica, ormai sia enorme. Vediamo se si riuscirà a colmare questa distanza, non è detto che il M5S o quel pezzo di Lega al Sud lo colmino. Proprio no. E qui c’è anche un po’ la risposta alla seconda parte della domanda. Per quello che io penso, per l’esperienza che ho, per la cultura di base dalla quale vengo – è un ragionamento che faccio soprattutto rispetto al PD – credo che chi vuole capire il Sud deve insediarsi un attimo nelle periferie urbane per capire di cosa parliamo. Forse così può comprendere quello che tanti di noi sostengono e cioè che il sociale viene prima dell’economico, che non è uno slogan, ma un paradigma nuovo che deve rovesciare quello vecchio (l’economico viene prima del sociale).
Non ha molto senso parlare al Sud di incentivi alle imprese. Il Resto al Sud è uno strumento carino – simile al prestito d’onore che mi ero inventato 30 anni fa – che va anche bene, ma la questione è un’altra: bisogna prendere atto di una caduta violentissima delle condizioni civili e delle relazioni sociali tra la gente. La politica questo deve fare. Non si fa questo e allora… Secondo me questa è la spiegazione del risultato elettorale. Adesso da lì bisogna ripartire. Mica te la cavi dicendo sistemiamo un po’ gli incentivi, trasferiamo più soldi al Sud. Non succede niente. Vai a sentite quello che la gente pensa, vai a condividere le questioni e può darsi che ti viene fuori una linea politica diversa. Credo che se il PD avesse guardato di più al sociale forse avrebbe capito qualche cosa di più del Sud. Per quanto riguarda Forza Italia, io ho conoscenze minori di quell’ambiente; penso che paghi l’interruzione o l’affievolimento di alcuni canali di consenso un po’ tradizionali.
La scomparsa del centro quali conseguenze ha sulla politica italiana? Che fine ha fatto, in termini politici, il ceto moderato, oggi ridotto al 21%? Il cambiamento radicale avvenuto sembra aver marginalizzato e quasi dissolto le aree moderate e riformiste. Cosa è avvenuto?
La domanda risente forse un po’ di uno schema che oggi appare vecchio. Chi lo ha detto che il M5S rispetto al vecchio schema non sia centro? Forse è un nuovo centro. Il problema che è un centro totalmente deideologizzato. Questo spiega perché loro in buona fede ti dicono: “tre mesi fa parlavamo male della Nato ma adesso il discorso è diverso”. Non avvertono il peso di uno schema ideologico e io aggiungerei il peso di alcuni valori. E questo è un po’ il tema. Bisogna vedere se i valori che loro propongono sono sufficienti. Ad esempio, l’onestà è un grandissimo valore ma è sufficiente? Si deve impostare tutta la politica sull’onestà? Quindi a mio avviso non è tanto una questione di centro. A mio avviso è fortemente in crisi l’approccio moderato alle questioni. Questo è palese. Adesso siamo all’urlo assoluto. E torno al discorso di prima. Non è detto che il centro sia moderato.
Che fine ha fatto il voto cattolico? Come si è espresso?
E’ un tema molto interessante da affrontare. Non ho idea; penso che il voto si sia ripartito quasi equamente in tutte le formazioni politiche. Secondo me ce ne sono tantissimi che hanno votano M5S, qualcuno è rimasto al PD, qualcun altro a Forza Italia e molti alla Lega. Quello che invece credo sia importante pensare e che forse ci dobbiamo cominciare a chiedere: si può fare un ragionamento non tanto su un partito cattolico ma su una posizione che interpreti la tradizione politica dei cattolici democratici in questo Paese? Il paradosso è che abbiamo un papa che parla molto di politica e i cattolici non riescono ad esprimersi. E’ una situazione strana; probabilmente abbiamo ancora in mente l’idea che se i cattolici si impegnano in politica e inevitabilmente danno luogo ad una formazione politica specifica. Questo ragionamento è sbagliato perché non succederà più. Effettivamente però c’è una carenza di riflessione e di proposta imbarazzante.
Lei è Presidente della Fondazione CON IL SUD e da molti anni lavora per promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno sotto diversi aspetti. Ci può raccontare gli obiettivi del vostro lavoro e le sue ricadute culturali, sociali e politiche?
Il lavoro consiste nel promuovere l’infrastrutturazione sociale, la coesione sociale. Come lo facciamo? Approvando progetti, presentati da partenariati del Terzo settore, che riguardano diversi ambiti: l’educazione dei giovani – che poi ha avuto l’esplosione con l’Impresa sociale “Con i bambini” – l’integrazione dei migranti, l’inclusione dei soggetti deboli e dei disabili, il mondo della detenzione, la violenza sulle donne. Tutti temi sociali, alcuni di grande urgenza. E questo lo facciamo promuovendo anche le Fondazioni di comunità. Per il momento ne abbiamo cinque, speriamo che diventino di più; una formula fantastica ma molto impegnativa. La Fondazione con il Sud ha discreti risultati, gode di un buon giudizio. Abbiamo fatto fare anche un’indagine demoscopica, che ha dato buoni risultati: un buon giudizio e una discreta visibilità. Per rispondere alla domanda mi rifaccio a quello che c’è scritto nel nostro Statuto che recita: “La Fondazione con il Sud fa il suo lavoro nella convinzione che la coesione sociale è la premessa irrinunciabile dello sviluppo”. Quindi quello che chiede è insito nella nostra Missione.
Naturalmente con le osservazioni e le proposte che facciamo – noi siamo una Fondazione di erogazione, non un movimento né un’associazione – continuiamo a raccontare quello che vediamo. Quando dico che il sociale viene prima dell’economico non lo dico per studi fatti o per approcci ideologici, lo dico perché vado in giro e vedo. Vedo quartieri interi in cui parlare di crescita economica fa ridere i polli. Vedo territori interi in cui, se la politica si concentrasse nel trasferire risorse, aumenterebbe i guai. Perché se io do 500 milioni di euro a tre Comuni della Locride, oggi rischio di darli alla ‘ndrangheta. Naturalmente lì è una posizione più grave ma non dimentichiamoci che quando parlo di periferie urbane non sto parlando di 100 mila abitanti ma di 3/4 milioni di persone che sono in situazioni assurde. Allora il nostro obiettivo è quello: fare il nostro lavoro, dare bene i soldi, controllare in modo feroce che i soldi vengano spesi bene, lavorare molto sulla comunicazione, ma soprattutto mostrare che lo sviluppo del Sud è stato viziato da un paradigma che immaginava che si potevano risolvere i problemi sociali solo quando fosse partita la crescita. E’ vero esattamente il contrario.
Quale è la sua idea di sviluppo del Mezzogiorno? In cosa si differenzia da quella che ha caratterizzato la storia del nostro meridione?
La storia del nostro Mezzogiorno è stata questa, a mio avviso. Ci sono stati dieci anni iniziali in cui il Paese ha espresso una forte spinta di solidarietà e, non dimentichiamocelo mai, utilizzando i soldi del Piano Marshall – non i soldi del bilancio dello Stato italiano -, facendo partire la Cassa per il Mezzogiorno che per i primi dieci anni si occupò bene, con grande efficace ed efficienza, di alcune questioni centrali: l’acqua, l’energia elettrica e le strade. Dopo è partita una logica diversa (quando dico questa cosa i meridionalisti classici saltano sulla sedia indignati). Siccome c’era una clamorosa urgenza del dato occupazionale i partititi politici, sostanzialmente la DC e il PCI, per motivi per certi versi opposti e per altri convergenti, erano fortemente interessati ad una rapida industrializzazione del Sud. Il PCI non riusciva a concepire il suo ruolo forte senza la classe operaia, mentre la DC aveva paura che, a causa di vagonate di emigranti che andavano al Nord, loro avrebbero perso i voti. Il grande interprete di questa scelta – persona straordinaria ed autorevole – è stato Pasquale Saraceno, che ha governato questo grande processo di industrializzazione commettendo però un errore irreparabile, perché da quel momento tutta la cultura dello sviluppo del Sud è stata una cultura centrata sulla grande impresa, sul trasferimento di risorse da Roma e sono state mortificate tante spinte locali. Ora ci vorrebbe un ragionamento molto più complesso: si è andati avanti così e questo ha avuto effetti deleteri sulla classe dirigente. Perché se lo sviluppo viene deciso altrove, se le grandi scelte vengono prese altrove, io ho una responsabilità ridotta e il mio ruolo è quello di andare a contrattare, con il consenso che mi sono preso, dove si decide. E questo spiega la politica clientelare. E’ logico che è un ragionamento semplificato; alla base di questo discorso c’è però una questione di fondo: le politiche di sviluppo non si fanno solo con la quantità di soldi trasferiti.
Il grandissimo meridionalista, forse meno conosciuto di Saraceno, Giorgio Ceriani Sebregondi ha proposto un concetto chiave: i territori, i Paesi a sviluppo ritardato, quelli che sono in difficoltà, hanno bisogno dell’aiuto esterno, ma questo aiuto esterno deve incrociare un minimo di società responsabili e coese, altrimenti (questo aiuto) diventa assistenziale ed oppressivo. Questa è la storia del Sud. La politica dovrebbe finalmente capovolgere il discorso: non basta dire che non devono andare più soldi al Sud, non basta denunciare il fatto che ci sono alcuni meccanismi che premiano in modo innaturale il Nord. Il cuore della questione è far crescere la società meridionale, far crescere il senso di responsabilità e avere il coraggio di denunciare i difetti dei meridionali. Altrimenti il rischio è che una metà del Paese dica che i meridionali sono dei lazzaroni e l’altra metà dica che quelli del Nord sono degli egoisti. Come diceva Benedetto Croce: questo è un dibattito tradizionale ed inconcludente. Però purtroppo siamo ancora lì. Se guardiamo la grande stampa meridionale, salvo qualche eccezione, la linea culturale è quella del pianto e della denuncia delle ingiustizie subite. Questo non va bene, anche se è vero; ma non può essere la linea culturale. Il punto chiave è quello di rinforzare il sociale, di valorizzare il turismo, la cultura, la piccola impresa. Adesso stiamo riscoprendo alcune cose. Trent’anni fa se uno parlava al Sud di agricoltura chiamavano la neuro…
Cosa chiederebbe al nuovo governo? Quali sono le priorità che dovrebbe affrontare?
Chiederei al nuovo governo di dare un giudizio, parlo soprattutto del Mezzogiorno. Le cose si fanno dando dei giudizi e facendo delle analisi. L’analisi è che la questione principale del Mezzogiorno è il disastro sociale. E bisogna dare questo giudizio non per una questione di giustizia, ma perché si riconosce che in una politica di sviluppo questa è la premessa: quindi è giusto e conviene. Quali solo le priorità? Una è la scuola, poi bisogna intervenire per creare centri di aggregazione giovanile nei quartieri difficili. Naturalmente, alcuni sostegni alle imprese vanno bene. Alcuni degli ultimi provvedimenti a sostegno delle imprese sono fatti molto bene ed in maniera intelligente. Al governo chiederei di dare il senso di una gerarchia politica diversa. Questo si può fare con interventi nei quartieri, affrontando decisamente la questione dell’esclusione sociale dei soggetti svantaggiati; si può fare mettendo al centro la questione degli anziani non autosufficienti. Avendo però la forza di dire al Sud: questi sono i problemi senza i quali non risolviamo gli altri. Metterli addirittura prima della disoccupazione. Questa è la grande sfida per risolvere i problemi del nostro Meridione.
Lei è anche Presidente dell’Impresa Sociale Con i Bambini. In suo articolo apparso sul nostro sito, afferma “con tre parole – periferie, povertà educativa e comunità educante – si potrebbe cambiare il destino del nostro Paese, a condizione però che vengano impiegate nella quotidianità, nel nostro lavoro ma prima di tutto nel modo di pensare”. Può approfondire questo pensiero?
La sfida di questa operazione, che abbiamo realizzato con l’Impresa Sociale Con i bambini, riguarda tre dimensioni, tre questioni. La prima è quella di dimostrare che il Terzo settore è in grado di gestire progetti complessi. Le risorse sono per metà pubbliche e per metà private – in realtà sono più pubbliche che private – e la gestione è privatistica: è affidata ad una società che è figlia delle Fondazioni bancarie e del Terzo settore. L’attuazione dei progetti è quindi in capo al Terzo settore. Seconda questione: la comunità educante. Significa che il tema della scuola non è solo in capo alla scuola, ma alla comunità, alle famiglie, agli altri soggetti del territorio. E’ un tema enorme. Cominciano ad essere promosse diverse sperimentazioni, non solo da noi. Noi facciamo molti progetti su questo tema. Terza questione, ancora più ambiziosa, è che il welfare che verrà è un welfare in cui le carte non le dà lo Stato, ma le danno i soggetti privati, anche con i soldi dello Stato. Queste sono le tre sfide che vogliamo affrontare.
Quando parliamo di comunità educante lo sforzo è quello di far capire alla comunità che stiamo parlando di un problema, l’educazione, che è di tutti e che non è delegabile solo alla scuola. Qui vale molto il discorso che facevamo prima. Se io so che i bambini non hanno posto all’asilo nido posso indignarmi, posso dire che questa è una schifezza da combattere, posso operare perché sono buono di cuore o perché ho una posizione politica; in ogni caso però siamo nel campo dei diritti negati da riconoscere. Secondo noi questo non basta. Quando un italiano legge che in Calabria ci sono 2 posti di asilo nido ogni 100 abitanti e a Reggio Emilia, che è una città di eccellenza, ce ne sono 28, e che la media suggerita a livello europeo è 33, deve avere la seguente reazione: non deve dire poveri bambini che non hanno il nido, ma deve dire povera Italia che sta distruggendo il suo capitale umano. Questo è il salto politico da fare. Ci dobbiamo preoccupare. Ormai non c’è più uno studioso di economia, anche il più moderato e il più tradizionalista, che non dica che lo sviluppo si fa con il capitale sociale e con capitale umano. Questa è la filosofia del lavoro che porta avanti “Con i bambini”. Bisogna investire sul futuro ma non come uno slogan. Investiamo su uno che adesso ha 5 anni e che tra 15 anni ne ha 20. E se abbiamo di fronte una persona “vuota” a 20 anni, è tutto il sistema che perde.
Un’ultima domanda sui giovani. Lei incontra molti giovani in situazione di disagio. Come affrontarla?
Rispetto ai giovani in disagio bisogna fare una battaglia terribile per cercare di recuperare una dimensione di socialità in un contesto in cui le socialità o sono negative o non ci sono proprio. Spesso i giovani sono soli o hanno delle bande strane. Cerchiamo di fare degli interventi anche strutturali. Operiamo in quartieri in cui, con 300 mila euro all’anno, teniamo impegnati le realtà giovanili. Coinvolgiamo 300-400 ragazzi facendogli fare qualcosa, evitando così che stiano in mezzo alla strada. Poi il Comune dice che non ha i soldi e i ragazzi non vanno più al centro; arriva la polizia fa una retata e tutto questo al sistema costa molto di più di 300 mila euro.
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