La vicenda del cosiddetto “regionalismo differenziato”, anche per come è stata messa a tema, pare l’ennesimo sintomo di un Paese che ha perso la capacità di avere nostalgia del proprio futuro, ovvero d’immaginare e desiderare un proprio domani migliore.
Nel giro di un lustro si è passati da un dibattito fortemente centrato sugli sprechi e i costi eccessivi delle regioni al regionalismo differenziato. Che dire? Il vento cambia con rapidità. Questa proposta, soprattutto negli obiettivi dichiarati della Lega (ex Nord), purtroppo pare abbinarsi a un’altra idea di moda: quella secondo la quale si cresce se si premia la ricchezza e la forza, e poi con un po’ di beneficenza e di assistenzialismo si fa qualcosa anche per chi resta indietro. Ragion per cui vanno premiati i territori ricchi così come, in attesa dei regali della flat tax, già vengono premiati gli straricchi (in questo caso vanno bene anche stranieri), sempre più incentivati a trasferirsi di qua o di là da una sciocca concorrenza fiscale tra stati europei, destinata a legittimare di conseguenza il dumping sociale.
Una concorrenza di cui il nostro Paese sta diventando protagonista consentendo, per esempio, a qualche super campione di pagare, pare, solo lo 0,2-0,3% di tasse sui redditi esteri o, grazie al decreto crescita, ai nuovi arrivi dall’estero della Juve o al nuovo allenatore dell’Inter di dimezzare le imposte con sconti di diversi milioni. Alla faccia del dover detassare il lavoro e del ridurre il peso fiscale per lavoratori e imprese.
Forse il tema del regionalismo differenziato potrebbe avere il merito di riaprire un dibattito serio e approfondito sul federalismo solidale, magari anche europeo, laddove il federalismo, però, non esalta solo l’autonomia, ma la federa a un disegno più ampio. Il federalismo è tale se mette la differenza a servizio dell’attuazione di un comune destino, se si gareggia nel perseguire i principi fondamentali della Costituzione in tutto il territorio, e i conseguenti livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (la mancata tutela dei quali già oggi consentirebbe al Governo nazionale di sostituirsi alla Regione in base all’articolo 120 della Costituzione), ovunque.
Ma ci sono oggi i presupposti per cercare gli equilibri tra disegno nazionale e valorizzazione delle autonomie locali, vista una politica dei tweet, indisponibile a tempi e discorsi approfonditi, ampi, trasparenti e partecipati, che esclude lo stesso Parlamento? Pare proprio di no, anche considerando che il paese reale non ne può più del riformismo nato dalle dichiarazioni roboanti (e non da testi e studi meditati), che spesso calano dall’alto modelli astratti, cui seguono interminabili iter legislativi nei quali resta sempre in eterna gestazioni, per anni, qualche decreto indispensabile.
Certo il tema del regionalismo e delle competenze da attribuire resta valido e non solo legittimo, ma non possiamo far finta di non vedere, come dimostra Gianfranco Viesti, che si vuole quantificare la realtà del fabbisogno regionale per l’istruzione (il settore più importante per il nostro comune futuro!) tirando furbescamente in ballo la spesa pro-capite, stimata calcolando ogni cittadino, come se per essere equi dovessimo stanziare la stessa cifra per un bambino e per un novantenne!!
La cosa è però seria, specie se ci guardiamo sia indietro che in avanti.
Se guardiamo dietro e compariamo la mappa dell’Europa di oggi, dobbiamo prendere atto che è molto più simile a quella destinata ad entrare nella Prima Guerra Mondiale che non a quella del 1990, e parte del disegno è tracciato da un’altra guerra che ha visto il ritorno dei genocidi e 250mila morti e 2 milioni di profughi.
Se guardiamo avanti, con una crescita globale sempre più tenue e una crisi finanziaria ed economica solo tamponata, perché gestita prevalentemente alimentando la crescita del debito globale e senza toccarne le criticità di fondo, rischiamo di vivere dei brutti risvegli, specie in un quadro diffuso di guerre a pezzi, riarmo globale e crescenti tensioni internazionali.
E’ allora sempre più urgente valorizzare le differenze, locali e non solo, dentro un disegno unitario e aperto al mondo, ancorandosi a due scelte di fondo.
La prima è forse non privilegiare grandi modelli assoluti che rischiano di arenarsi a metà del guado e consumarsi in troppi lunghi iter e nella volubilità dell’opinione pubblica e del clima politico, ma individuare dei processi che vadano in quella direzione e ne incarnino la logica, che ridiano fiato ai principi costituzionali che legano intimamente sussidiarietà e solidarietà, unità e diversità, perché l’una sorregge l’altra.
Probabilmente in questo senso andrebbero praticate, e non istituite, regioni più ampie capaci di legare con rapporti e collaborazioni identità e comunità. Pensiamo per esempio all’Appennino: una comunità di destino, in alcune zone vittima dimenticata dei recenti terremoti, che abbraccia intere regioni con problemi comuni e che se non recuperata ad una strategia di sviluppo scaricherà le conseguenze dello spopolamento sull’intero paese. La comunità dell’euroregione adriatica, ponte tra culture e mondi un tempo separati, le comunità delle Alpi; la comunità tutta da immaginare delle isole del Mediterraneo. Dobbiamo forse lavorare per comunità immaginate come processi che accomunano ed esaltano un progressivo stare insieme del paese e del mondo attorno. Perché un paese, una comunità come ogni singola persona, non è solo i suoi confini ma le sue relazioni, gli incontri, di confine. Nessuno si realizza pienamente da solo.
Un terreno sul quale creare un processo che faccia unità nella diversità regionali deve assolutamente essere il concorrere a ricostruire un disegno unitario e non solo riparativo di welfare, valorizzando e dando voce e ruolo alle comunità locali e al Terzo settore (ammesso che se ne completi la riforma), facendo del welfare un motore nonché un asset strategico di uno sviluppo equo e sostenibile, laddove chiamato innanzitutto a ridurre le diseguaglianze e il blocco della mobilità sociale che assedia il futuro del paese.
Il welfare ha bisogno di obiettivi, livelli essenziali, programmazioni nazionali e regionali che integrino educazione, istruzione e formazione professionale, sociale, salute e lavoro, originando però da una collaborazione e una strategia delle comunità locali. In questo quadro non aiutano né misure e progettazioni nazionali che riducono i contesti locali e chi opera nel sociale a mero elargitore di prestazioni impersonali o a sperimentazioni estemporanee (e quindi anche poco efficaci), né una corsa a fare ognuno per sé lasciando che ognuno si prenda le competenze che vuole fuori da un disegno comune.
Il vero spreco del welfare, oltre alla corruzione e alla cattiva amministrazione in alcuni campi, è l’essere già uno spezzatino di territori e prestazioni, nonché di sistemi non integrati, tra welfare pubblico, welfare privato, aziendale, welfare “fai da te”, e infine welfare del “fai da solo” per chi non ne ha altri. Un terreno/processo di partenza, potrebbe essere proprio una riflessione più ampia sulle politiche di lotta alla povertà, che se si riducono ad una sola misura (il reddito di cittadinanza) senza trovare completezza in altri interventi e in una azione d’insieme locale e nazionale fatta di servizi e relazioni da attivare, inevitabilmente sarà inefficace e discriminante.
La seconda scelta è quella di ridarsi una visione di quello che dovrebbe essere il compito del nostro paese e dell’Europa stessa, col concorso delle proprie comunità e dei corpi intermedi, nel mondo. Una visione che riscatti il nostro essere al centro del Mediterraneo (che è centrale nel mondo) da sciagura a grande opportunità e compito storico, ad una prospettiva di ponte tra civiltà e aree geografiche; senza dimenticare che se non altro per interesse nazionale, all’Italia la pace e il dialogo, la tessitura di rapporti, sono stati sempre più utili e convenienti che le armi dell’arroganza e della chiusura. All’Europa serve un’Italia che ritrova questa nostalgia del proprio futuro. Serve al nostro Sud e al nostro Nord, insieme.
Non siamo più un grande paese in un mondo piccolo, ma un paese piccolo in un mondo immenso. Fino a 40, 50 anni fa l’Occidente era la ricchezza e lo sviluppo. Il Nord America ed il nostro continente erano ¼ della popolazione globale. Oggi siamo quasi 1/8, e andiamo a scendere.
Serve questa Italia per concorrere ad un Europa non fine a se stessa, ma avanguardia di altri pari e desiderabili blocchi democratici – asiatici, africani, americani ecc… – ; è il passo che dobbiamo compiere per una terra né piatta né appiattita sulle avidità del presente. La globalizzazione senza corrispondenti nuove istituzioni democratiche e senza una società civile autenticamente democratica, è destinata ad essere sempre più un Far West. Per questo è strategica la nostra centralità nel Mediterraneo oggi protagonista più di morte che vita.
Così concludeva, un quarto di secolo fa, il compianto Ralf Dahrendorf, il saggio “Quadrare il cerchio”, nel quale sottolineava come il modello europeo si ispirasse allo sforzo di tenere insieme benessere economico, coesione sociale e libertà politica: “è una componente essenziale dei valori europei, o forse dei paesi dell’OCSE, l’imperativo di non perdere mai di vista la natura veramente internazionale, e in questo senso universale, del progetto per il prossimo decennio. Si parla di prosperità per tutti, di creazione della società civile ovunque e di libertà politica per chiunque. Ciò significa che, in ultima istanza, non ci occupiamo di regioni privilegiate, ma di un mondo e di istituzioni più appropriate alla vastità del compito”.
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