Da un anno e mezzo al centro del dibattito politico nazionale prevalgono argomenti relativi allo svolgersi di indirizzi economici e finanziari, spesso in conflitto tra loro, e di (pericolose) strategie per la gestione dei migranti e per la sicurezza: principalmente su questi temi la maggioranza gialloverde ha finora giocato i destini presenti e futuri del governo.
Una attenzione minore e rapsodica (eccetto che in ambito accademico) è stata rivolta a questioni politiche e istituzionali altrettanto importanti, fissate nel cd. contratto di governo, e intese, secondo esplicite dichiarazioni, a porre le basi per un nuovo patto tra cittadini, territori e istituzioni; il che, in termini più espliciti, significa ridurre, con il referendum propositivo, poteri e competenze parlamentari, e, con il regionalismo differenziato, apportare modifiche di rilievo alla stessa forma-Stato fissata dalla Costituzione repubblicana.
Negli ultimi mesi sul piano pubblico le cose sono cambiate. La legge sul referendum propositivo è stata approvata con il voto della maggioranza alla Camera dei deputati e, in questa fase di stallo, si attende (da molti con ansia) il dibattito e il voto in Senato. Si è acceso, quindi, il dibattito sull’attivazione del comma III dell’articolo 116 della Costituzione nel quale è previsto che le Regioni possano assumere «forme e condizioni particolari di autonomia». Nella riscrittura nel 2001 del Titolo V, però, non è cancellato il precedente vincolo costituzionale (art. 114) relativo al riconoscimento delle autonomie territoriali quali istituzioni costitutive della Repubblica senza gerarchie interne.
In realtà, l’intenzione di riformare gli assetti regionali non è un fatto improvviso: basti ricordare i tentativi pregressi e falliti di frenare quella che a molti pareva una progressiva inefficacia dell’intero sistema delle autonomie. L’attuale intervento di riforma in riferimento a quel comma dell’art. 116 si è avviato già alla fine della scorsa legislatura, dopo i due referendum consultivi della Lombardia e del Veneto, proposti all’opinione pubblica come una presa di posizione «corale» a favore di una più ampia e forte autonomia di quelle Regioni.
Il governo Gentiloni stipulò agli inizi del 2018, poco tempo prima della fine della scorsa legislatura, alcune intese per la “differenziazione” con le due Regioni in questione, cui si è aggiunta l’Emilia-Romagna (inaugurando l’attuale rincorsa delle altre Regioni a “differenziarsi”: rincorsa di cui si colgono principalmente solo alcune ragioni politiche).
Nella presente legislatura, alla metà di febbraio di questo 2019, si sono stipulate intese più specifiche tra il governo Conte e ciascuna delle Regioni citate: l’intesa riguardante l’Emilia Romagna risulta limitata al trasferimento di alcune funzioni amministrative statali, mentre quelle di Lombardia e Veneto riguardano gran parte delle materie disponibili (art. 117) a una gestione prevalente da parte delle Regioni, includendo, di fatto, il trasferimento di interi settori di personale dalle amministrazioni statali, senza specificare l’espresso vincolo, di cui all’art. 119, riguardante il necessario accertamento della compatibilità finanziarie con ogni innovazione amministrativa.
Su questa strada – è stato sottolineato da molti – non solo si mette a rischio (dopo i tanti problemi già posti nel 2001 dalla riforma del titolo V della Costituzione) il difficile equilibrio posto dal Costituente tra il riconoscimento e la promozione delle autonomie e il principio della Repubblica «una e indivisibile», ma si lasciano ampi spazi di indeterminatezza per l’applicazione dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza posti dall’art. 118 nella distribuzione delle funzioni amministrative tra diversi livelli istituzionali e, in particolare, per il loro conferimento da parte di ciascuna Regione agli altri enti locali (Comuni, Province e Città metropolitane).
Inoltre, lo straordinario incremento (almeno per Veneto e Lombardia) richiesto delle competenze regionali non solo non può prevedere attualmente definitivi piani di spesa, ma, e soprattutto, per la sua indeterminatezza, confonderà in alcune materie cruciali (dalla sanità all’istruzione, alle grandi reti di trasporto, ecc.) gli interessi locali con quelli nazionali, mettendo a rischio l’azione unitaria dello Stato.
Peraltro, le vaste richieste di autonomia (legislativa e amministrativa) rimangono generiche, perché non misurate con le peculiari necessità delle singole Regioni. Ciò fa pensare che una volta accordate ad alcune Regioni tutto quello che chiedono, diviene difficile non assecondare le medesime richieste che, presumibilmente, si affretteranno a formulare le altre sei Regioni (Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) che hanno già dato mandato ai Presidenti delle loro Giunte di avviare trattative col Governo o che, come la Campania, hanno preannunciato iniziative analoghe.
Su questo è già in corso uno scontro tra le due forze che compongono la maggioranza. In sostanza, l’eventuale mancata accoglienza di nuove richieste, pur generiche e diffuse, potrà aprire il grave contenzioso tra le Regioni del Nord soddisfatte e quelle del Sud che denunciano l’ennesima discriminazione storica; è quello che già avviene tra le Regioni con prevalente elettorato della Lega e quelle con prevalente elettorato cinquestelle. Se invece, come appare difficilmente possibile, saranno accolte in modo paritario le richieste di tutte le Regioni, si avvierà, inevitabilmente, una trasformazione dell’intero sistema regionale e della stessa forma dello Stato con conseguenze che oggi nessuno riesce a prevedere.
Accanto a queste difficoltà ne emerge almeno un’altra di carattere procedurale, ma pur sempre sostanziale per il nostro sistema democratico: l’attuale contrattazione Governo-Regioni sulla riforma non solo rischia di rimanere molto opaca nelle sue premesse e nei suoi fini, ma di fatto fa prevedere una compressione del ruolo del Parlamento che nella nostra Repubblica rimane il luogo dove si forma e si sviluppa la volontà politica.
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