“La nostra aspirazione è quella che le energie locali possano bene e ordinatamente sviluppare e consolidarsi, non contro uno stato unitario, ma entro lo stato e garantite dallo stato“.
“La provincia autonoma e il comune autonomo, in un coordinamento di poteri e di limiti, devono creare finalmente il cittadino autonomo” (Luigi Sturzo, Politica di questi anni, 1950-51; p. 72 e p. 125).
Ho deciso di iniziare il mio editoriale scegliendo due passi di Don Luigi Sturzo, il quale – nella sua immensa elaborazione culturale e all’intero della sua attività politica – ha in diverse occasioni riflettuto sul tema del rapporto stato-regioni. Sturzo, convinto assertore del regionalismo, sostiene con chiarezza che “gli ordinamenti locali vanno inquadrati in quelli nazionali”.
La sua visione del rapporto stato-regioni è dinamica, sussidiaria, attenta a valorizzare il ruolo delle energie locali in una concezione che attribuisce allo stato un compito di garante dei diritti e delle opportunità. Per lui “l’autonomia decentrata” deve essere perseguita con senso di responsabilità e con una divisione dei poteri (delle competenze) coordinata e limitata dallo Stato.
Sturzo si è confrontato a più riprese con coloro che definisce “antiregionalisti”, cercando di far loro comprendere le ragioni e le necessità di una visione dello stato tesa a valorizzare il ruolo delle regioni senza cadere nella deriva regionalista. In questo senso afferma significativamente: “l’unità della patria non è in discussione; la regione non la scalfisce in nessun modo; l’unità della patria ci trova tutti sul medesimo piano, regionalisti e antiregionalisti, perché tutti siamo italiani” (Luigi Sturzo, Politica di questi anni, 1950-51; p. 26).
E’ esattamente questa la posta in gioco, ieri come oggi. La richiesta da parte di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna – dopo l’esito positivo dei due referendum consultivi regionali del 2017 in Veneto e in Lombardia – di una autonomia differenziata su 23 materie indicate dall’art. 116 della Costituzione introduce un rischio grave. Siamo di fronte ad una scelta che può mettere a rischio l’unità nazionale, dando il via ad un regionalismo pericoloso, quello che temevano gli antiregionalisti a cui si rivolgeva Sturzo.
L’autonomia differenziata di oggi assomiglia più ad una devolution che alla prospettiva dell’autonomia decentrata indicata da Sturzo, più coerente con la riforma in senso federale promulgata dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001/3, a seguito del referendum del 7 ottobre 2001. Non bisogna dimenticare che quella riforma federale, parziale ma sostanziale, della Repubblica “in senso cooperativo e solidale” si fonda sui principi di sussidiarietà e di solidarietà.
Il tema vero che abbiamo di fronte è quello di ridisegnare il rapporto stato-regioni, rivedendo il titolo V della Costituzione, e di attivare strumenti capaci di garantire la tenuta unitaria del sistema. A partire dall’individuazione, nei diversi settori, dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. E con attenzione a far si che essi vengano effettivamente garantiti, che siano concretamente esigibili, cosa che già oggi non sempre avviene!
In questa prospettiva rileggere le riflessioni di Don Sturzo aiuterebbe molto a recuperare una visione del rapporto stato-regioni dinamica ed equilibrata, che tenga come bussola quella dell’unità nazionale, scegliendo con chiarezza su quali materie accentrare e su quali decentrare, nell’interesse di tutti i cittadini e dei loro diritti.
Per questi motivi abbiamo deciso di dedicare questo focus al tema del rapporto Stato- Regioni con riferimento all’ipotesi di un’autonomia differenziata.
Abbiamo chiesto ad esperti provenienti da diversi mondi (scuola, associazionismo) e prospettive disciplinari (diritto, economia, sociologia, etica sociale, storia dell’arte) di ragionare su alcune questioni: quali rischi sono presenti nel disegno di riforma dell’autonomia differenziata che sta emergendo? Perché l’autonomia differenziata non è l’unica strada possibile per realizzare un nuovo equilibrio tra poteri dello Stato e delle Regioni? In che modo è possibile riformare il Titolo V della Costituzione in modo da aprire la strada ad un federalismo solidale? Come attuare il principio di sussidiarietà enunciato dalla nostra Costituzione? Quali materie devono essere di competenza esclusiva dello Stato e quali possono essere di competenza delle Regioni? Come garantire ai cittadini eguali diritti (essenziali) su tutto il territorio nazionale? Come garantire un’equità fiscale complessiva nel rapporto Stato-Regioni?
Iniziamo con Stefano Tassinari (Vicepresidente delle Acli nazionali delega Politiche del Terzo settore, Politiche della Cooperazione, impresa sociale e volontariato) che dopo aver sottolineatio come “la vicenda del cosiddetto “regionalismo differenziato appaia come l’ennesimo sintomo di un Paese che ha perso la capacità di avere nostalgia del proprio futuro, ovvero d’immaginare e desiderare un proprio domani migliore“, osserva: “la globalizzazione senza corrispondenti nuove istituzioni democratiche e senza una società civile autenticamente democratica, è destinata ad essere sempre più un Far West. Per questo è strategica la nostra centralità nel Mediterraneo oggi protagonista più di morte che vita“.
Secondo Lidia Borzi (Delegata Istituzioni Acli nazionali) “è necessario e urgente aprire sul tema del regionalismo un grande dibattito pubblico perché è una questione non secondaria che riguarda troppo da vicino tutti i cittadini, e le ACLI, con il loro diffuso radicamento popolare sul territorio, sentono un supplemento di responsabilità”
Gianfranco Viesti (Docente di Economia all’Università di Bari) osserva come “il processo di attuazione dell’articolo 116.3 della Costituzione in Italia richiede una straordinaria attenzione, dato che le richieste di attuazione avanzate dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna presentano rilevanti profili di criticità. Essi attengono a tre grandi ordini di questioni: il merito delle richieste, i meccanismi di finanziamento, i processi decisionali. Tali criticità sono tali da poter sostenere che siamo di fronte al pericolo di una vera e propria secessione dei ricchi”.
Per Vincenzo Antonelli (Docente di diritto amministrativo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e componente del Centro Studi dell’Azione Cattolica Italiana) “la strada intrapresa dalle regioni volta ad ottenere tutto e subito evoca, invece, un’autonomia più rivendicata che (praticata e) praticabile. Se l’ordinamento si muove verso la differenziazione a macchia di leopardo diventa necessario garantire l’unità e la coesione nazionale, l’ordito unitario del Paese”.
Marco Olivetti (Professore ordinario di Diritto costituzionale della LUMSA di Roma), sottolinea come “l’autonomia differenziata può essere un volano per il sistema delle autonomie, ma da sola non basta. E’ tutto il cantiere delle autonomie che va riaperto, nella consapevolezza che il percorso non sarà facile anzitutto per la scarsità delle risorse finanziarie disponibili, dato l’elevato debito pubblico, i vincoli europei e l’impossibilità di aumentare le imposte. Ma l’interesse nazionale è più che mai connesso ad un sistema delle autonomie vitale e funzionale, al nord come al sud, nel quadro dell’unità della Repubblica e nella prospettiva della valorizzazione delle differenze”.
Secondo Antonio La Spina (Docente di Sociologia. Insegna anche Valutazione delle politiche pubbliche presso l’Università LUISS) “Costituzione e norme europee alla mano, nessuno deve essere lasciato indietro rispetto a un insieme di condizioni, ripeto, minimale, in mancanza del quale vengono meno i diritti di cittadinanza e la dignità individuale, per non dire dell’unità nazionale, che peraltro viene così tanto declamata in tempi recenti”.
Per Nicola Antonetti (Presidente dell’Istituto Luigi Sturzo) “sul tema dell’autonomia differenziata, accanto alle varie difficoltà, ne emerge almeno un’altra di carattere procedurale, ma pur sempre sostanziale per il nostro sistema democratico: l’attuale contrattazione Governo-Regioni sulla riforma non solo rischia di rimanere molto opaca nelle sue premesse e nei suoi fini, ma di fatto fa prevedere una compressione del ruolo del Parlamento che nella nostra Repubblica rimane il luogo dove si forma e si sviluppa la volontà politica“.
Giulio Maria Salerno (Docente di Istituzioni di diritto pubblico dell’Università di Macerata) osserva che “il regionalismo differenziato non può essere ridotto ad una mera questione burocratica, ma coinvolge il destino dell’intera collettività nazionale. Per giungere all’autonomia differenziata occorre però seguire un procedimento molto articolato, in cui intervengono, a vario titolo, una pluralità di istituzioni e soggetti e in cui vanno rispettate non poche condizioni“.
Per Stefano Semplici (Docente di Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata) dopo aver evidenziato come “l’Italia, rispetto alle materie per le quali possono essere riconosciute anche alle regioni a statuto ordinario particolari forme di autonomia è da tempo un paese spaccato” osserva che “il regionalismo differenziato, se deve essere, deve essere al servizio di questo impegno e non di una cultura delle disuguaglianze che avrebbe l’unico pregio di essere onesta, perché senza ipocrisia. Le disuguaglianze che spaccano l’Italia sono davvero troppo grandi perché ci si possa accontentare di questa onestà“.
Raffaela Milano (Direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children) osserva come “fuori dal ring “nordisti–sudisti” ci si può dunque chiedere se e a quali condizioni un eventuale nuovo bilanciamento di poteri possa combinarsi con un avanzamento dei diritti sociali, e dunque della nostra democrazia. Così impostata, la riflessione potrebbe coinvolgere anche gli attori non istituzionali, come le organizzazioni civiche, trasformandosi in un’opportunità per riflettere sul superamento delle diseguaglianze e sulle strategie di sviluppo sostenibile per il Paese, tutto insieme…”
Per Marco Rossi Doria (Maestro elementare, primo maestro di strada e già sottosegretario all’Istruzione) “l’autonomia differenziata rischia di introdurre il principio secondo il quale l’accesso al diritto all’istruzione non è più diritto uguale per tutti ma si differenzia in funzione della residenza. Così, l’istruzione degli italiani da fatto di prima rilevanza nazionale, uguale per tutti, come sancito dalla Costituzione, diventa questione di ogni territorio in via separata e distinta da ogni altro territorio”.
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