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L’autonomia differenziata può essere un volano per il sistema delle autonomie, ma da sola non basta. E’ tutto il cantiere delle autonomie che va riaperto, nella consapevolezza che il percorso non sarà facile anzitutto per la scarsità delle risorse finanziarie disponibili, dato l’elevato debito pubblico, i vincoli europei e l’impossibilità di aumentare le imposte. Ma l’interesse nazionale è più che mai connesso ad un sistema delle autonomie vitale e funzionale, al nord come al sud, nel quadro dell’unità della Repubblica e nella prospettiva della valorizzazione delle differenze…

Premessa

Dopo la formazione del governo Conte, la questione del regionalismo differenziato ha acquisito una posizione centrale nel dibattito politico sull’evoluzione del sistema italiano delle autonomie territoriali. Addirittura, nei resoconti giornalistici della vicenda non è raro sentir parlare della questione qualificandola come quella dell’autonomia tout court, come se l’Italia non vantasse una ormai radicata tradizione municipalistica e regionalistica, che costituisce, fra l’altro, uno dei tratti caratterizzanti del sistema creato dalla Costituzione del 1947.

Per quanto assurda, tuttavia, l’identificazione fra il regionalismo differenziato e il regionalismo nel suo insieme (o addirittura con l’autonomia), può essere spiegata per almeno quattro ragioni.

In primo luogo, va ricordata la lunga eclissi del principio autonomistico nella realtà costituzionale italiana dell’ultimo decennio, in cui la crisi economica ha prodotto dinamiche centralizzatrici, che hanno esasperato le logiche centripete che da sempre hanno attraversato, assieme a quelle centrifughe, il regionalismo italiano, con la conseguenza che l’autonomia differenziata si presenta oggi come un modo per far ripartire il sistema regionale nel suo insieme.

In secondo luogo, la procedura prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione italiana, che prevede appunto l’autonomia differenziata, si presta a letture ed utilizzazioni talmente varie da poter essere ritenuta una vera e propria pagina bianca [1], tutta da scrivere con la sua applicazione: di qui l’incertezza sulla sua portata e sulla sua adeguata collocazione nella «Repubblica delle autonomie».

In terzo luogo, la differenziazione è un esito necessario di qualsiasi sistema regionale e federale, che consiste nel riconoscere una sfera di autonomia legislativa ed amministrativa alle Regioni (o agli Stati membri di uno Stato federale), dal cui esercizio discende inevitabilmente una differenziazione normativa o amministrativa fra i diversi enti territoriali autonomi.

Infine, non si può non vedere che oggi i negoziati fra governo e regioni sulle intese volte a concedere loro nuove forme e condizioni di autonomia hanno riaperto la grande questione irrisolta che ha tradizionalmente condizionato, se non bloccato, l’evoluzione del regionalismo italiano: la questione meridionale, che costituisce poi l’altro lato della medaglia della questione settentrionale, cui l’autonomia differenziata vorrebbe in qualche modo dare risposta. Anche da questo punto di vista il sistema delle autonomie nel suo insieme viene chiamato in causa.

Il regionalismo differenziato di cui all’art. 116, terzo comma, della Costituzione

Una delle principali novità della riforma del titolo V, approvata nel 2001 [2], fu l’introduzione nell’art. 116, che originariamente disciplinava l’autonomia delle Regioni a statuto speciale, di un terzo comma, volto a consentire il conferimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia anche alle Regioni ordinarie, nelle forme e nei modi regolati dallo stesso comma. Per questo meccanismo si è parlato di “regionalismo differenziato” [3].

L’art. 116, terzo comma, individua anzitutto le materie nelle quali le Regioni possono richiedere l’autonomia differenziata. Si tratta di 23 materie, molto diverse fra loro, che includono tutte gli oggetti di competenza legislativa concorrente fra Stato e Regioni ordinarie (art. 117, terzo comma) e di tre materie di competenza legislativa esclusiva statale (art. 117, secondo comma).

Gli oggetti inclusi nel catalogo delle competenze concorrenti sono assai rilevanti, ma si tratta di sfere di competenza sulle quali il titolo V già riconosce alle Regioni il potere di legiferare ed eventualmente anche di amministrare: dunque ciò che l’autonomia differenziata dovrebbe permettere è la riduzione dei poteri unitarizzanti posti in capo allo Stato. Del resto, la competenza concorrente – nella quale, per la legislazione, allo Stato spetta stabilire i principi fondamentali e alla Regione adottare, nel limite dei principi statali, le norme di sviluppo o dettaglio – porta con sé una intrinseca flessibilità, essendo assai arduo predeterminare con chiarezza cosa sia principio (e dunque fin dove possa arrivare lo Stato) e cosa sia dettaglio (e cosa sia quindi riservato alle Regioni).

Quanto alle materie, esse includono fra l’altro l’istruzione, la tutela della salute, la tutela e la sicurezza del lavoro, la protezione civile, il governo del territorio, la previdenza complementare e integrativa, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, la ricerca scientifica e tecnologica a sostegno dell’innovazione per i settori produttivi, le professioni assieme a porti e aeroporti civili, produzione e distribuzione e trasporto nazionale dell’energia, grandi reti di trasporto e navigazione, e molto altro ancora. Le materie di competenza esclusiva statale «devolvibili» alle regioni sono invece tre: l’organizzazione della giustizia di pace, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali e le norme generali sull’istruzione.

Per l’incremento dell’autonomia regionale in tali materie, l’art. 116, terzo comma, prevede una procedura abbastanza dettagliata: (a) anzitutto deve esservi una richiesta della Regione interessata; (b) è poi necessario che siano sentiti gli enti locali della Regione; (c) Deve quindi essere raggiunta una intesa fra la Regione ed il governo nazionale; (d) sulla base di tale intesa, il Governo dovrà presentare un disegno di legge, che (e) dovrà essere approvato dalle due Camere a maggioranza assoluta.

L’art. 116, terzo comma, aggiunge un ulteriore requisito: la differenziazione deve rispettare i principi previsti dall’art. 119 Cost. sull’autonomia finanziaria. Ciascuno di questi requisiti contribuisce a collocare il regionalismo differenziato nel sistema.

a) L’iniziativa regionale rimette l’eventuale attivazione della differenziazione regionale nel quantum delle sue competenze ad una volontà della regione stessa, che desideri ampliare la sua sfera di autonomia, nella consapevolezza di poter meglio gestire ulteriori funzioni, al servizio della propria comunità di cittadini. L’iniziativa è rimessa agli organi di governo della Regione, vale a dire alla Giunta, verosimilmente con il consenso dell’organo rappresentativo regionale, mentre non è necessario che nella decisione siano coinvolti direttamente i cittadini della Regione. I referendum consultivi indetti per il 22 ottobre 2017 in Lombardia ed in Veneto non erano dunque un requisito giuridicamente necessario: il ricorso ad essi, tuttavia, fu utilizzato dai rispettivi governi regionali come argomento per sostenere con il consenso popolare la richiesta di una autonomia più ampia. Diversamente, la Regione Emilia-Romagna preferì attivare la richiesta senza coinvolgere la cittadinanza in un referendum.

b) E’ invece obbligatoria la consultazione degli enti locali della Regione interessata, vale a dire dei Comuni e delle Province (mentre è facoltativa la consultazione di enti locali infraregionali di natura non territoriale, come università e Camere di commercio). Diverse sono le forme in cui tale consultazione può avere luogo e anche il momento in cui essa può essere effettuata. La sua funzione dimostra la necessità di ancorare l’iniziativa di richiedere l’ampiamento dell’autonomia alle esigenze del sistema degli enti territoriali di una data Regione e non solo dell’ente regionale e della maggioranza politica in essa esistente in un dato momento storico.

c) La Regione interessata può dunque richiedere al governo l’apertura delle trattative ai sensi dell’art. 116, terzo comma. Il negoziato si svolge con il Dipartimento affari regionali della Presidenza del Consiglio e con i ministeri interessati, a seconda delle materie su cui venga richiesto dalla Regione un supplemento di autonomia. Può trattarsi anche di negoziati piuttosto complessi, come è in effetti accaduto sia nel 2017-18, sia nel 2018-19 fra le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia ed i governi nazionali rispettivamente guidati da Paolo Gentiloni e da Giuseppe Conte: ciò dipende sia dall’ampiezza delle materie coinvolte, sia dal modo in cui la Regione intende ampliare la propria autonomia, oltre che dal grado di sensibilità politica delle questioni coinvolte.

d) Il negoziato ha il suo sbocco nella conclusione di un’intesa fra il Governo e la Regione interessata: il raggiungimento di tale intesa – così come lo stesso avvio delle trattative – rientra nella piena disponibilità politica della Regione interessata e del Governo, che possono in qualsiasi momento ritirarsi dalle trattative senza che ciò produca altre conseguenze che la responsabilità politica per la scelta fatta. L’intesa, di per sé, non produce tuttavia alcun effetto: perché essa diventi vincolante nel suo contenuto, occorre che essa sia tradotta in legge.

e) L’ultima parola nel procedimento di differenziazione spetta quindi alle due Camere del Parlamento nazionale, chiamate ad approvare la legge rinforzata idonea a conferire forza giuridica alle intese fra Governo e regione interessata. La funzione del Parlamento è quella di garantire l’armonizzazione fra il punto di vista particolare incorporato nelle intese e l’interesse generale della nazione. E la Costituzione sottolinea la peculiarità della legge di differenziazione come «legge di sistema» richiedendo, per la sua approvazione, la maggioranza assoluta in entrambe le Camere. Trattandosi di una legge chiamata ad approvare un atto che ha origine all’esterno del Parlamento e che ha natura bilaterale (l’intesa), risulta problematico che essa sia emendabile dalle due Camere [4] allo stesso modo in cui lo sono, in generale, i disegni di legge (ma non quelli, appunto di approvazione, come quello di approvazione delle intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, di approvazione del concordato, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e, in passato, di approvazione degli statuti delle Regioni ordinarie, i quali, essendo basati su un atto bilaterale fra lo Stato ed un’altra entità non sono invece emendabili). Tale questione è stata molto discussa, in vista della prossima presentazione in Parlamento dei disegni di legge recanti la differenziazione regionale sui quali ha negoziato il governo Conte, anche in quanto i regolamenti parlamentari non contengono indicazioni specifiche sul procedimento da seguire per l’approvazione delle leggi di differenziazione.

L’applicazione dell’art. 116, terzo comma

La procedura per l’attivazione del regionalismo differenziato fu percepita sin dal 2001 come una delle novità di maggiore potenzialità della riforma del titolo V. Ciononostante, essa è rimasta per lungo tempo quasi solo sulla carta. Alcuni tentativi molto timidi di metterla in moto furono posti in essere fra il 2006 e il 2008, con alcune iniziative provenienti dalla Regione Lombardia e un disegno di legge generale volto a chiarificare la procedura da seguire, predisposto nel 2007 dal II governo Prodi, ma mai presentato in Parlamento [5].

Dal canto loro, alcune Regioni del nord governate da Giunte di centro-destra (soprattutto da quando esse sono guidate da Presidenti leghisti) hanno più volte invocato l’utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, come strumento per accedere ad una autonomia speciale. Nel caso del Veneto, il riferimento alla specialità regionale di cui godono le due regioni confinanti – Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia – soprattutto in ragione di un regime finanziario più favorevole, è ormai un elemento costante almeno dagli anni novanta. Tuttavia la politica leghista su questo tema ha oscillato fortemente fra la rivendicazione di maggiore autonomia nei momenti in cui la Lega si trovava all’opposizione a livello nazionale e l’accettazione dello status quo nelle fasi in cui (2001-06 e 2008-11) il partito era parte della coalizione di governo di centro-destra a Roma.

Nel 2014 la giunta regionale veneta guidata da Zaia ha impresso una accelerazione alle proprie domande di autonomia, approvando alcune leggi regionali volte a convocare una serie di referendum, finalizzati, rispettivamente, a sottoporre al corpo elettorale veneto, l’indipendenza della Regione, l’accesso all’autonomia speciale e la richiesta di autonomia differenziata. Particolarmente grave era l’inserimento della questione dell’indipendenza fra gli oggetti della consultazione, dato il carattere eversivo dell’ordine costituzionale di tali quesiti, in evidente contrasto con il principio di unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 della Costituzione.

Ma il quesito indipendentista risentiva anche di una pulsione imitativa di altre consultazioni simili, come quella effettivamente realizzata in Scozia nel 2014 o quella tentata illegalmente in Catalogna nel 2017.

Le leggi venete, però, vennero impugnate dal Governo statale davanti alla Corte costituzionale, la quale, con la sent. n. 118/2015, dichiarò l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano la convocazione dei referendum sull’indipendenza e sull’autonomia speciale, ma ritenne non incompatibile con la Costituzione il quesito referendario volto a consultare l’elettorato veneto sulla richiesta di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

Dopo alcune esitazioni, la giunta regionale veneta indisse tale referendum (di carattere consultivo) per il 22 ottobre 2017, giocando fra l’altro sull’anniversario del plebiscito per l’annessione del Veneto all’Italia dopo la Terza guerra di indipendenza. Al Veneto si affiancò la regione Lombardia, che convocò per lo stesso giorno un analogo referendum consultivo, pur con alcune differenze nella formulazione del quesito referendario, fra le quali l’espresso riferimento all’unità nazionale come quadro della richiesta di autonomia. Il risultato favorevole all’autonomia dei referendum lombardo e veneto (molto più alto in questo secondo caso, sia per l’elevata partecipazione al voto, sia per la schiacciante maggioranza favorevole) è stato utilizzato dai Presidenti delle due Regioni come base per richiedere al Governo l’inizio delle trattative per giungere ad una intesa con tali regioni ai sensi dell’art. 116, terzo comma.

Nel frattempo, pur senza utilizzare la via referendaria (che come si è detto sopra non è una fase necessaria della procedura di differenziazione), una richiesta di attivazione dell’art. 116, terzo comma, venne presentata al governo dalla Regione Emilia-Romagna, che, dopo un’ampia consultazione degli enti locali infraregionali e della società civile, elaborò un progetto di ampliamento dell’autonomia regionale ed avviò effettivamente i negoziati con il governo nell’autunno 2017. Il governo Gentiloni, in particolare attraverso il sottosegretario per gli affari regionali Gianclaudio Bressa, avviò effettivamente le trattative con la Regione Emilia-Romagna, alla quale, dopo i referendum del 22 ottobre, si aggiunsero la Lombardia ed il Veneto.

Le trattative ebbero luogo parallelamente, Regione per Regione, ma in maniera contestuale e su binari molto simili. Il governo nazionale, infatti, da un lato rifiutò come estranea all’art. 116, terzo comma, la richiesta di trattenimento a livello regionale dei nove decimi del gettito fiscale riscosso sul territorio della Regione (richiesta dal Veneto e utilizzata dal Presidente Zaia come bandiera della campagna referendaria) e dall’altro impose che le trattative per l’autonomia differenziata si concentrassero su alcune materie, invece che su tutta la gamma delle materie possibili ai sensi dell’art. 116, terzo comma. Anche in ragione della prossimità della fine della XVII legislatura (che avrebbe reso evidentemente impossibile giungere all’approvazione parlamentare delle intese prima delle elezioni), il governo nazionale ritenne infatti di utilizzare le intese come un progetto sperimentale, limitato a specifiche funzioni, per lo più amministrative, in cinque ambiti materiali: lavoro, salute, ambiente, istruzione e politiche europee. La finalità era sperimentare la differenziazione e, al tempo stesso, far ripartire la dinamica del sistema delle autonomie, bloccata nei lunghi anni della crisi economica e del centralismo che essa ha generato.

Le tre Regioni finirono per accettare il quadro della «trattativa Bressa», resa non facile anche dalla resistenza dei ministeri di settore. Il 28 marzo 2018 – a pochi giorni dalle elezioni legislative del 4 marzo – furono sottoscritti a Palazzo Chigi tre accordi preliminari alle intese, firmati dal Sottosegretario Bressa e dai Presidenti di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, Bonaccini, Zaia e Maroni. In tal modo, l’articolo 116, terzo comma, non veniva reso operativo, ma era in qualche modo scongelato: l’evoluzione successiva era rimessa alle dinamiche politiche che sarebbero uscite dalle elezioni. E’ evidente che lo schema della trattativa del 2017-2018 richiedeva, per essere sviluppata in seguito, un certo grado di continuità politica, vale a dire la sopravvivenza – sia pure con dati numerici ben diversi da quelli degli anni 2013-18 – di un bipolarismo dominato dalle forze moderate di centro-destra e di centro-sinistra, con la Lega coinvolta attraverso i suoi presidenti regionali in Veneto e in Lombardia. Com’è noto, questo quadro politico è stato semplicemente spazzato via dalle elezioni del 4 marzo 2018, che hanno visto una chiara prevalenza delle forze di sensibilità populista, e dalla successiva (faticosa) formazione del governo «giallo-verde», presieduto da Giuseppe Conte.

Il governo Conte e l’autonomia differenziata

Fra i pilastri programmatici del nuovo governo, all’autonomia differenziata venne riconosciuto uno spazio prioritario. Essa fu inclusa nel contratto di governo sottoscritto dai leaders di Lega e Cinquestelle e posto alla base del governo Conte, formatosi il 1° giugno 2018. Alla guida del Dipartimento Affari Regionali fu preposto un ministro leghista veneto, la senatrice Erika Stefani.

Le premesse politiche per l’autonomia differenziata sembravano dunque poste con chiarezza e già nel corso del mese di luglio il ministro avviò formalmente le trattative con la «delegazione trattante» della Regione Veneto, guidata dal Presidente Zaia, che aveva tempestivamente predisposto un progetto di attuazione dell’art. 116, terzo comma, imperniato su una legge nazionale e sul ricorso alla delegazione legislativa e, soprattutto, operativo rispetto a tutte le 23 materie cui l’art. 116 terzo comma può riferirsi.

La trattativa, tuttavia, si è ben presto rivelata assai più complessa di quanto, forse, gli stessi attori inizialmente prevedevano. Se le parti più critiche della richiesta del Veneto (il trattenimento sul territorio dei nove decimi degli introiti fiscali percepiti sul territorio; il ricorso alla legge delega, che avrebbe spostato la esatta determinazione delle materie devolute a decreti delegati adottati dal governo, deparlamentarizzando così il procedimento di attuazione dell’autonomia differenziata; l’integrale regionalizzazione delle 23 materie evocate dall’art. 116, terzo comma) sono state rapidamente abbandonate o drasticamente ridimensionate, la questione del regionalismo differenziato si è ben presto rivelata una delle principali pietre di inciampo del cammino del governo Conte. Anche in una variante ridimensionata rispetto alle richieste iniziali, l’autonomia differenziata poneva infatti rilevanti sfide all’organizzazione dello Stato e ai due partners della coalizione di governo. Infatti, il Movimento Cinquestelle, espressione soprattutto dell’elettorato meridionale (e in particolare dei settori statalisti ed assistenzialisti di questo), si è ben presto dimostrato ostile a vari aspetti dell’autonomia differenziata. I nodi principali hanno finito per essere tre: la regionalizzazione del personale scolastico, il passaggio alla Regione veneto della gestione di porti, aeroporti ed autostrade, la definizione delle modalità di finanziamento.

La difficoltà della trattativa, del resto, non doveva sorprendere. Essa dipende dall’abbandono della logica gradualistica e sperimentale che aveva ispirato gli accordi preliminari firmati dal Sottosegretario Bressa il 28 febbraio 2018 e dalla logica del «tutto e subito», per quanto in più punti temperata, che i presidenti leghisti (in particolare quello veneto) hanno imposto ai negoziati. Anche se ciò che il Veneto stava negoziando sui tavoli ministeriali romani era assai meno di quanto il Presidente veneto aveva promesso in campagna elettorale per il referendum del 2017 (niente autonomia speciale, niente nove decimi del gettito fiscale, niente tutto e subito), proprio quelle richieste iniziali erano elevate a spauracchio dell’opposizione che iniziava a levarsi, soprattutto nell’Italia meridionale, attorno allo slogan – a suo modo non meno estremista della propaganda del presidente Zaia – della «secessione dei ricchi». In questo quadro le trattative hanno proceduto con difficoltà, arrivando in Consiglio dei ministri dapprima a febbraio [6] e poi a maggio [7], in un contesto di scarsa trasparenza, nel quale i negoziati trilaterali fra il Dipartimento affari regionali, le regioni interessate e i ministeri di settore coinvolti dalle materie di cui si chiedeva la parziale o totale devoluzione alle Regioni erano condizionati dagli alti e bassi del governo Conte e dalle tumultuose relazioni fra i due partiti che lo sostengono. A tratti, l’autonomia è sembrata essere una possibile pietra di inciampo, il casus belli su cui il governo giallo-verde avrebbe potuto cadere.

L’annuncio – il 19 luglio 2019 – dell’esclusione dall’oggetto delle intese della materia istruzione e, quasi sicuramente, della gestione delle infrastrutture, ha segnato uno dei (tanti) momenti di alta tensione nell’esecutivo. Tuttavia, la trattativa non si è interrotta e la possibilità che le intese arrivino alla fine in Parlamento, verosimilmente dopo la pausa estiva del 2019, resta aperta al momento in cui si licenziano queste brevi note.

Conclusioni provvisorie

Riflettendo su questo scenario, tuttora in pieno movimento, senza che sia possibile prevedere se l’autonomia differenziata resterà un miraggio o se si tradurrà in norme giuridiche, con tutte le conseguenze per le amministrazioni ed i servizi ai cittadini, quali valutazioni sono possibili? Occorre forse riprendere alcuni dei rilievi introduttivi, muovendo da ciò che l’autonomia differenziata non è, per tentare di ragionare su ciò che essa potrebbe essere nello specifico contesto attuale.

L’autonomia differenziata non è una via surrettizia per la secessione leggera. Non è neppure un percorso per la devoluzione finanziaria, vale a dire per la canalizzazione di risorse supplementari verso alcune Regioni. Non è, infine, un surrogato dell’autonomia speciale, vale a dire uno statuto speciale in tutto salvo che nel nome. La responsabilità della Lega (e in particolare del presidente regionale veneto) è stata cavalcare queste ambiguità, in maniera certo efficace per la sua legittimazione sul suo territorio e benefica in termini di consenso elettorale, ma alla lunga poco produttiva per la generazione di un consenso nazionale sull’autonomia differenziata.

Al tempo stesso, tuttavia, occorre riconoscere che l’autonomia differenziata può essere molto utile come via per far ripartire le logiche autonomistiche del sistema costituzionale italiano, implicite nella riforma del 2001, ma largamente depotenziate dal modo in cui essa è stata implementata, sia da parte del legislatore nazionale – il quale, dopo il 2001, ha continuato a legiferare come se la riforma costituzionale non fosse stata approvata e come se lo Stato fosse competente su ogni materia – sia da parte della Corte costituzionale, la quale ha avallato quasi tutte le esondazioni competenziali di cui il legislatore centrale si è reso responsabile. La crisi economica post-2010 ha fatto il resto.

Ora, l’art. 116, terzo comma, può essere un modo – non certo l’unico, forse neanche il migliore, ma comunque un modo – per rileggere l’articolazione delle competenze statali e regionali nell’ampia gamma delle materie di competenza concorrente in maniera più «amichevole» verso il regionalismo e le autonomie, ovviamente nel quadro dell’unità dello Stato e dell’indivisibilità della Repubblica. Essa può essere utilizzata, in ciascuna materia, per aprire spazi di scelta autonoma alle Regioni, in modo che esse rispondano in maniera adeguata alle esigenze dei loro territori. Ciò richiede che le Regioni si attivino non tanto per sollevare bandiere o per una riedizione in chiave lillipuziana di una sorta di volontà di potenza, tentando di scimmiottare lo Stato d’antan, ma per individuare i punti in cui il progetto autonomistico, già implicito nella Costituzione del 1947 e poi fortemente sviluppato dalla riforma costituzionale del 2001, si è sclerotizzato.

L’art. 116, terzo comma, consente che ciò accada Regione per Regione. Vi è qui, senza dubbio, il rischio di soluzioni disfunzionali, soprattutto per lo Stato centrale, che potrebbe vedersi ridotto ad operare «a macchia di leopardo», mantenendo alcune funzioni per alcune regioni e perdendole per altre. Ma vi è anche la grande opportunità di procedere con passi e tempi diversi a seconda della capacità dei territori di attivarsi con maggiore efficienza e a seconda delle domande locali. Da questo punto di vista, lo spirito di mera resistenza all’innovazione, basata sulla paura del nuovo e delle capacità altrui che emerge da molte prese di posizione delle classi dirigenti meridionali, vecchie e nuove, è criticabile, dal punto di vista dell’unità nazionale, proprio come le istanze di autonomia irresponsabile di cui talora si sono fatti portavoce alcuni dirigenti leghisti di amministrazioni dell’Italia settentrionale.

L’unità e l’indivisibilità della Repubblica restano beni di rilevanza suprema anche con l’avanzare del XXI secolo: ma essi sono messi in pericolo forse più da chi si oppone allo sviluppo del principio autonomistico che da chi ne chiede l’implementazione. Una Repubblica delle autonomie è infatti un’esigenza costituzionalmente necessaria proprio per preservare l’unità, nella consapevolezza che la questione settentrionale e la questione meridionale vanno affrontate valorizzando le differenze al servizio di una unità che non può che essere molteplice.

Del resto, la differenziazione, anche in forme poco virtuose, è già una realtà in Italia e non è prodotta dall’applicazione del principio autonomistico. Proprio i recenti risultati dei test Invalsi, resi noti ad inizio estate 2019 – pur con tutta la prudenza che misurazioni di questo tipo richiedono – dimostrano che se il problema dell’Italia è senza dubbio una crescita del divario fra nord e sud, la causa di tale divario non è certo la regionalizzazione del Paese o l’attribuzione di determinate competenze amministrative (e in taluni casi legislative) alle Regioni o l’aumento delle funzioni degli enti locali minori. L’istruzione, infatti, è al momento una funzione gestita dallo Stato centrale, mediante il Ministero dell’Istruzione e le sue diramazioni periferiche: eppure proprio in una funzione gestita a livello nazionale con regole eguali sul territorio e con un personale reclutato con regole nazionali, emerge la differenza di qualità del sistema nelle diverse parti del Paese. Conclusione inevitabile: più Stato e meno autonomie non vuol necessariamente dire più eguaglianza fra i diversi territori. Non è certo dimostrato con ciò il contrario (cioè che più autonomia voglia dire più eguaglianza), ma questo punto di partenza non dovrebbe essere dimenticato.

L’ultima parola non può che essere dedicata alla questione del finanziamento delle funzioni che possano eventualmente essere oggetto di autonomia differenziata (così come, più in generale al tema del finanziamento del sistema degli enti territoriali, anche al di fuori della differenziazione). Una volta rimossa l’ideologia del residuo fiscale e la pretesa a trattenere sul territorio gran parte del gettito fiscale ivi percepito (che comporterebbe, forse, una crisi fiscale radicale dello Stato italiano, nelle condizioni attuali), e una volta affermato che l’art. 116 terzo comma non è la via per la pura devoluzione fiscale, ma semmai per il trasferimento alle regioni di funzioni amministrative e legislative e, di conseguenza, delle risorse finanziarie già oggi necessarie a esercitarle, resta il problema dell’unità di misura da utilizzare per supportare la differenziazione mediante risorse finanziarie adeguate, che continuerebbero ad essere riscosse a livello nazionale.

Qui tornano in gioco una serie di nodi che rendono necessario riprendere il c.d. federalismo fiscale, la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali, il ruolo delle province, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m) e tutto ciò che l’attuazione della riforma del titolo V del 2001 avrebbe comportato e che invece dorme in un sonno profondo da oltre un decennio.

In sintesi: l’autonomia differenziata può essere un volano per il sistema delle autonomie, ma da sola non basta. E’ tutto il cantiere delle autonomie che va riaperto, nella consapevolezza che il percorso non sarà facile anzitutto per la scarsità delle risorse finanziarie disponibili, dato l’elevato debito pubblico, i vincoli europei e l’impossibilità di aumentare le imposte. Ma l’interesse nazionale è più che mai connesso ad un sistema delle autonomie vitale e funzionale, al nord come al sud, nel quadro dell’unità della Repubblica e nella prospettiva della valorizzazione delle differenze.

 

 

* Questo articolo verrà pubblicato nel prossmo numero di Sindacalismo. Rivista trimestrale di studi sulla rappresentanza del lavoro nella società globale diretta da Andrea Ciampani (Rubbettino).

 

Note

[1] Riprendo qui la celebre definizione di Livio Paladin per mettere in evidenza la genericità del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni nell’art. 117 della Costituzione, testo originario: cf. L. Paladin, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale, in Foro amministrativo, 1971, III, p. 39

[2] Per un quadro generale sul regionalismo italiano nella sua configurazione originaria, prima della riforma del 2001, si v. A. D’Atena, Regione, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIX, Giuffrè, Milano, 1988, p. 317 ss.; sulla riforma del titolo V si v. M. Olivetti, T. Groppi (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali dopo la riforma del titolo V, Giappichelli, Torino, 2001 (e II ed. 2003); per una ricostruzione organica del regime attuale v. A. D’Atena, Diritto regionale, IV ed., Giappichelli, Torino, 2018.

[3] Questa è in effetti la denominazione più diffusa: cos, già prima della riforma del titolo V, L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Giuffrè, Milano, 2000. Questa locuzione è utilizzata anche da F. Palermo, Il regionalismo differenziato, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La repubblica delle autonomie, II ed., Giappichelli, Torino, 2003, p. 55 ss.; D. Dominici, G. Falzea, G. Moschella (a cura di), Il regionalismo differenziato. Il caso italiano e spagnolo, Giuffrè, Milano, 2004; F. Cortese, La nuova stagione del regionalismo differenziato: questioni e prospettive, tra regola ed eccezione, in Le Regioni, 2017, n. 4, p. 691-692, nt. 4; S. Agosta, L’infanzia «difficile» (…ed un’incerta adolescenza) del nuovo art. 116, comma 3, Cost. tra proposte (sempre più pressanti) di revisione costituzionale ed esigenze (sempre più sentite) di partecipazione regionale alla riscrittura del quadro costituzionale delle competenze, in E. Bettinelli, F. Rigano (a cura di), La riforma del titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 2004, p. 314 ragionava invece di «clausola di differenziazione». Peraltro con riferimento all’art. 116, 3° comma, si sono proposte altre denominazioni, come «clausola di asimmetria» (S. Mangiameli, La riforma del regionalismo italiano, Giappichelli, Torino, 2002, p. 140 ss. e Id., Appunti a margine dell’articolo 11, comma 3, della Costituzione, in Le Regioni, 2007, n. 4, p. 664), di «clausola di differenziazione» (A. M. Poggi, Esiste nel titolo V un «principio di differenziazione» oltre la «clausola di differenziazione» del 116 comma 3?, in A. Mastromarino, J.M. Castellà Andreu (a cura di), Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, Giuffrè, Milano, 2009, p. 27 ss.), «semispecialità» regionale (A. Cariola, F. Leotta, Art. 116, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. III, Utet, Torino, 2006, p. 2193), «specialità diffusa» (G. Demuro, Regioni ordinarie e regioni speciali, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino, 2001, p. 47; F. Salvia, Autonomie speciali e altre forme di autonomia differenziata, in Diritto e Società, 2002, p. 460) «speciale specialità di singole regioni ordinarie» (G. Falcon, Il nuovo titolo V della parte II della Costituzione, in Le Regioni, 2001, p. 11), «accesso delle Regioni ordinarie all’autonomia speciale» (A. D’Atena, Diritto regionale, IV ed., Giappichelli, Torino, 2019, p. 287), «specializzazione dell’autonomia regionale» (A. Ruggeri, La “specializzazione” dell’autonomia regionale: se, come e nei riguardi di chi farvi luogo, in Le Istituzioni del federalismo, 2008, n. 1, p. 21 ss.), «regionalismo a più velocità» (E. De Marco, Qualche interrogativo su un «regionalismo a più velocità», in Quad. cost., 2003, p. 353 ss.) o «autonomia regionale ponderata» (R. Toniatti, L’autonomia regionale ponderata: aspettative ed incognite di un incremento delle asimmetrie quale possibile premessa per una nuova stagione costituzionale del regionalismo italiano, in Le Regioni, 2017, n. 4, p. 641).

[4] Sull’esame parlamentare della legge di differenziazione rinvio a M. Olivetti, Il regionalismo differenziato alla prova dell’esame parlamentare, in www.federalismi.it, 20.3.2019.

[5] Al riguardo si v. gli interventi pubblicati su Le istituzioni del federalismo, 2008, n. 1.

[6] Per un esame critico dei contenuti delle bozze di intese rese note in febbraio si v. F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna?, in www.federalismi.it, 20.3.2019.

[7] Per il testo delle intese reso noto a maggio 2019 si v. https://www.roars.it/online/ecco-le-bozze-segrete-del-regionalismo-differenziato-quale-futuro-per-scuola-e-universita/.

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