Il “regionalismo differenziato” previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione non rischia di spaccare il paese, come molti temono. Un rischio – questa è la definizione proposta dal vocabolario online della Treccani – corrisponde alla “eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”. L’eventualità implica la semplice possibilità e quel che già si è realizzato, con tutta evidenza, non può essere considerato un rischio, perché è un fatto.
L’Italia, rispetto alle materie per le quali possono essere riconosciute anche alle regioni a statuto ordinario particolari forme di autonomia è da tempo (forse da sempre) un paese spaccato. Questa è la premessa di ogni valutazione del dibattito in corso: è lecito e forse anche necessario opporsi alle richieste avanzate da alcune regioni (con la consapevolezza che la stessa determinazione sarebbe stata allora necessaria nel momento in cui, nel 2001, venne modificata la Costituzione), ma ciò di cui avremmo davvero bisogno è un confronto serio sui diritti asimmetrici degli italiani.
È vero che il regionalismo asimmetrico dovrà in ogni caso dimostrare la sua compatibilità con il dovere che la Costituzione impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Appare davvero arduo sostenere la tesi che quest’ultima possa essere significativamente condizionata dalla regione di appartenenza, una volta esclusi sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali (art. 3). Ma questo è ciò che accade. Oggi e senza poter ovviamente scaricare la responsabilità della situazione sul terzo comma dell’art. 116.
Mi limito a due esempi. La Legge 23 dicembre 1978, n. 833, con la quale venne istituito il servizio sanitario nazionale, indicava inequivocabilmente l’obiettivo della promozione, del mantenimento e del recupero della salute fisica e psichica «di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali» (art. 1) e la necessità di perseguire «il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del paese» (art. 2).
Si può dire che le scelte operate negli anni successivi dal legislatore e in particolare la “regionalizzazione” sempre più spinta del servizio, che fa della sanità un banco di prova significativo di questa prospettiva politica, abbiano finalmente reso possibile tale superamento? Sul sito del Ministero della Salute sono disponibili gli esiti della valutazione effettuata dal Comitato LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) per l’anno 2017 rispetto all’adempimento di quanto previsto per la loro erogazione. I punteggi delle regioni sottoposte a verifica si distribuiscono lungo una scala che va dai 136 punti della Calabria ai 221 del Piemonte.
Al di là del rispetto o del mancato raggiungimento della soglia fissata per essere considerati “adempienti” (oltre alla Calabria, risultava inadempiente la Campania), resta l’evidenza di una distanza significativa e sono proprio Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia (le regioni che hanno chiesto per prime il riconoscimento dell’autonomia rafforzata), insieme alla Toscana, a far compagnia al Piemonte in vetta a questa classifica.
Se passiamo all’istruzione, che è il tema del quale più si sta discutendo in queste settimane, i dati illustrano in modo impietoso una situazione analoga. Il Rapporto Nazionale INVALSI 2019, relativo a prove che per la prima volta hanno coinvolto anche gli studenti che stavano per sostenere l’esame di maturità, fotografa una situazione di fronte alla quale l’attenzione non può che diventare allarme. La distanza fra le aree settentrionali e il Sud e le Isole – si legge nelle pagine che propongono uno “sguardo d’insieme” sulle prove d’italiano – cresce progressivamente e alcune regioni, “in primo luogo la Calabria, ma anche la Campania, la Sicilia e la Sardegna si segnalano per risultati particolarmente bassi in pressoché ogni grado d’istruzione”.
Le classifiche dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) non fanno altro che confermare e amplificare questa asimmetria al livello apicale del sistema della formazione, con l’aggravante che esse vengono poi utilizzate per assegnare fondi “premiali” che appesantiscono ulteriormente la situazione anziché per individuare le priorità connesse all’esigenza di una equilibrata distribuzione di istituzioni di qualità su tutto il territorio nazionale. Solo 25 dei 180 dipartimenti universitari riconosciuti “di eccellenza” – e per questo destinatari di cospicui finanziamenti – sono collocati in atenei meridionali, rispetto ai 49 del Centro e ai 106 del Nord (Bologna e Padova, da sole, ne hanno più di tutte le università del Sud).
In presenza di disuguaglianze che impattano su diritti riconosciuti fondamentali e sulla speranza di una vita migliore la contiguità fra i “ricchi” e i “poveri” o una distanza comunque considerata superabile, anche a costo di affrontare pericoli più o meno grandi, spingono alla migrazione. È la sfida che diventa dramma nel Mediterraneo e in tante altre parti del mondo. Ma anche in Italia le persone si muovono. Il Report 3/2018 della Fondazione GIMBE, dedicato alla mobilità sanitaria interregionale nel 2017, evidenzia un alto “indice di attrazione” per regioni come la Lombardia e l’Emilia-Romagna (che ricevono da sole oltre i 2/3 della “mobilità attiva”) e un “indice di fuga” elevato in quasi tutte le regioni del Sud (si spostano anche i cittadini del Nord, ma ciò va inteso verosimilmente nel senso della “mobilità di prossimità” legata a specifiche preferenze agevolate dalla facilità di spostamento tra regioni del Nord con elevata qualità dei servizi sanitari).
Il Rapporto biennale 2018 dell’ANVUR sullo stato del sistema universitario e della ricerca riporta i dati sulla “mobilità in uscita” degli immatricolati. Nell’anno accademico 2017/2018 il tasso di mobilità degli studenti del Sud e delle Isole verso il Centro-Nord era pari al 23%. In Sicilia, in particolare, la percentuale risulta raddoppiata in 10 anni, passando dal 15% al 29,6%. Va da sé che questa dinamica di attrazione e fuga è in molti casi una dinamica di iniquità: sono le famiglie e non la Repubblica a dover coprire gran parte delle spese. Si potrebbe aggiungere (guardando a un tema ovviamente molto diverso) che la Repubblica ha invece coperto le spese per la formazione ad alto livello delle migliaia di giovani che si vedono costretti a cercare in altri paesi la possibilità di mettere a frutto i loro talenti…
Da qui dovrebbe partire a mio avviso il confronto sul regionalismo differenziato. Il principio di sussidiarietà è un pilastro della Costituzione in quanto pensato in una circolarità virtuosa con quelli di partecipazione, responsabilità, inclusione. L’impressione, purtroppo, è che anche questo sia un capitolo del progressivo rannicchiarsi degli individui in confini sempre più ristretti, nei quali cercare sicurezza e protezione per una qualità della vita che deve essere prima di tutto per i “nostri”. Prima di procedere, occorre essere chiari su questo punto. Come lo è stata in passato la Corte Costituzionale. In più occasioni essa ha ribadito il riferimento al “nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana”, pur nella consapevolezza della limitatezza delle risorse e degli altri interessi rispetto ai quali realizzare un esercizio spesso difficile di bilanciamento.
Non possono esserci dubbi sull’obbligo di assicurare, «mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione» (sentenza n. 200/2009). Il regionalismo differenziato, se deve essere, deve essere al servizio di questo impegno e non di una cultura delle disuguaglianze che avrebbe l’unico pregio di essere onesta, perché senza ipocrisia. Le disuguaglianze che spaccano l’Italia sono davvero troppo grandi perché ci si possa accontentare di questa onestà.
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