La strada intrapresa dalle regioni volta ad ottenere tutto e subito evoca, invece, un’autonomia più rivendicata che praticabile. Se l’ordinamento si muove verso la differenziazione a macchia di leopardo diventa necessario garantire l’unità e la coesione nazionale, l’ordito unitario del Paese…

Potrebbe giungere a breve all’importante tappa (anche se non conclusiva) della stipula di alcune intese tra il Presidente del Consiglio dei ministri e i rispettivi Presidenti di regione il percorso di differenziazione iniziato nel 2017 da tre regioni italiane (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna).

Si tratta di un percorso avviato a seguito del positivo esito dei due referendum consultivi regionali del 2017 in Veneto e in Lombardia per rivendicare maggiori forme di autonomia, che avevano portato ad un primo negoziato con il governo centrale, cui si era aggiunta l’Emila Romagna, conclusosi il 28 febbraio 2018 con la sottoscrizione di intese preliminari, le cosiddette “preintese”, tra il rappresentante del governo presieduto da Paolo Gentiloni e i presidenti delle regioni coinvolte.

L’avvento di una nuova compagine governativa a seguito delle elezioni del 4 marzo 2018 e gli impegni assunti nel “contratto di governo” hanno indotto le regioni a riaprire il negoziato. Se le preintese si limitavano a soli 5 settori materiali (politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, rapporti con l’Unione Europea), le nuove proposte di intese interessano nel caso del Veneto tutte le 23 materie evocate dall’art. 116 della Costituzione, 20 materie nel caso della Lombardia, mentre l’Emilia-Romagna si è limitata a circa 16 materie.

Questo percorso rappresenta la prima attuazione di quanto previsto nel terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V. La disposizione costituzionale prevede la possibilità, attraverso un articolato processo che coinvolge regioni, enti locali, governo e parlamento nazionale, di attribuire a singole regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” principalmente nelle cosiddette “materie concorrenti”.

Ignorato per circa tre lustri, l’art. 116 della Costituzione è stato invocato nel 2017, anche a fronte della bocciatura referendaria della riforma costituzionale del 2016, per rilanciare la via italiana al federalismo. Una strada inesplorata, di cui non sono ben chiare le conseguenze sul complessivo sistema istituzionale ed amministrativo del Paese.

Nell’intenzione del riformatore costituzionale del 2001 vi era forse la volontà, a fronte della perdurante specialità che contraddistingue storicamente l’autonomia di alcune regioni, di prospettare forme “differenziate” dell’autonomia delle regioni ordinarie, da riconoscere – nell’ambito di un ampio elenco di materie – con scelte puntuali e circoscritte in considerazione soprattutto delle specifiche condizioni socio-economiche dei rispettivi territori.

La strada intrapresa dalle prime tre regioni, con la richiesta di maggiore e “particolare” autonomia in tutte o quasi le 23 materie indicate dall’art. 116 della Costituzione, va oltre l’intenzione del riformatore costituzionale del 2001 e finisce per configurare un vero e proprio “tertium genus” (sconosciuto dalla Costituzione) di regione da collocare tra le regioni speciali e quelle ordinarie: una nuova regione “differenziata”. Una vera e propria eterogenesi dei fini se si pensa anche che quasi tutte le rimanenti regioni ordinarie in maniera emulativa hanno annunciato la volontà di mettere in moto la procedura prescritta dall’art. 116 della Costituzione. Il modello “ordinario” di regione corre, pertanto, il rischio di rappresentare una scelta residuale (limitata forse a solo due regioni, l’Abruzzo e il Molise). Non possiamo, pertanto, tacere il rischio che in tal modo venga messa in discussione l’attuale forma di stato e la tenuta unitaria della Repubblica.

Inoltre, il percorso avviato dalla tre regioni potrebbe alimentare un inedito antagonismo con le rimanenti regioni ordinarie e trasformare il federalismo italiano da cooperativo in concorrenziale.

Assistiamo, dunque, alla riedizione di una mai abbandonata “devolution”, che dietro alla richiesta delle “ulteriori” competenze legislative finisce per estendersi a poteri e funzioni amministrative, tracciando e percorrendo una via alternativa alla distribuzione delle competenze amministrative prefigurata dall’art. 118 della Costituzione. Una scelta che potrebbe alimentare un neocentralismo regionale, un accentramento di compiti amministrativi nelle istituzioni regionali e di conseguenza un’ulteriore amministrativizzazione delle regioni.

Il negoziato in atto tra regioni e governo statale sembra essere caratterizzato da una bulimia regionale – giustificata dalla rivendicazione di maggiori poteri a fronte della costante riduzione dei finanziamenti, secondo l’adagio “meno soldi più poteri”, con l’obiettivo di garantirsi un’“autosufficienza regionale” – e da un incerto e in alcuni casi remissivo approccio del governo, più preoccupato di arginare le richieste regionali che proporre una visione unitaria ed equilibrata. In alcuni casi trapela la volontà dello stato centrale di accettare le richieste regionali per nascondere le proprie assenze ed inefficienze.

Debole appare al contempo la difesa dei vincoli unitari: a fronte della mancanza di un’espressa enunciazione delle disposizioni statali inderogabili, le intese affidano alle singole regioni l’individuazione delle disposizioni statali che dovranno perdere efficacia nei rispetti ordinamenti regionali. Prevedibile è sin d’ora la riapertura di un ampio contenzioso costituzionale tra stato e regioni, come avvenuto all’indomani della riforma costituzionale del 2001, e l’assunzione da parte della Corte costituzionale del ruolo e della responsabilità di arbitro delle competenze e dei conflitti.

Incerti appaiono altresì i prossimi passi che dovranno compiere le regioni e le istituzioni statali. Una volta stipulata l’intesa tra governo e singola regione, quest’ultima dovrà procedere (per alcuni ancor prima della sottoscrizione finale) all’assunzione del parere degli enti locali operanti nel territorio regionale. Successivamente il Parlamento dovrà esprimersi – sebbene sia incerta se l’iniziativa legislativa spetti alla regione o al governo – con una legge da approvare a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere. A tal riguardo dubbi avvolgono il potere dell’assemblea parlamentare di apportare modifiche alle intese stipulate.

Se la promozione delle autonomie, come sancito dall’art. 5 della nostra Costituzione, è un valore fondante dell’architettura istituzionale del nostro Paese dobbiamo interrogarci se sia possibile percorrere una strada diversa per dare attuazione all’art. 116 della Costituzione, scevra da ideologismi e da una “politicizzazione” dei processi costituzionali, soprattutto se l’ampliamento e la differenziazione dell’autonomia regionale tanto legislativa quanto amministrativa assumerà i caratteri della definitività, della irreversibilità. Infatti, a conclusione dell’iter disegnato dall’art. 116 della Costituzione potrebbe non essere più possibile tornare indietro.

In primo luogo per l’individuazione delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” da attribuire alle singole regioni si dovrebbe muovere da un’analisi degli specifici e reali bisogni delle comunità e dei territori, e non da aprioristiche ed astratte rivendicazioni politiche. Quello che manca nel negoziato in corso è, infatti, un’adeguata “motivazione” delle richieste e l’attestazione della sostenibilità istituzionale, economica e sociale dei trasferimenti.

In secondo luogo sarebbe necessario valutare da parte del legislatore statale l’estendibilità delle soluzioni a tutte le regioni a prescindere dal ricorso alle procedure fissate dall’art. 116 della Costituzione. Le misure migliorative andrebbero condivise con l’intero sistema regionale.

In terzo luogo si dovrebbe procedere (finalmente) all’attivazione degli strumenti chiamati a garantire la tenuta unitaria del sistema: l’individuazione nei diversi settori dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, l’enucleazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, la chiarificazione dei rapporti finanziari tra centro e territori, la declinazione dei poteri sostitutivi. In realtà sarebbe logico e ragionevole subordinare alla previa attivazione degli strumenti “unitari” nelle diverse materie il riconoscimento alle regioni di spazi di più ampia autonomia. Del tutto inesplorato è, altresì, il rapporto tra l’ordinamento regionale e quello dell’Unione europea a seguito dell’ampliamento dell’autonomia legislativa di alcune regioni.

In quarto luogo sarebbe opportuno assicurare progressività al percorso di differenziazione dell’autonomia regionale. Un percorso graduale – e circoscritto nel tempo – che permetta di valutare nel tempo gli effetti dell’ampliamento delle competenze regionali, soprattutto in alcuni settori, come quello sanitario, nei quali sono già stati sperimentati e si sono consolidati processi di regionalizzazione.

La strada intrapresa dalle regioni volta ad ottenere “tutto e subito” evoca, invece, un’autonomia più rivendicata che (praticata e) praticabile. Se l’ordinamento si muove verso la differenziazione a macchia di leopardo diventa necessario garantire l’unità e la coesione nazionale, l’ordito unitario del Paese.

Quello che manca è certamente il punto di vista del cittadino, la promozione di una cittadinanza nazionale in virtù della quale le differenze costituiscono il punto di partenza e non di arrivo, le differenze sono superate dalla garanzia dei medesimi diritti a tutte le persone e dalla solidarietà reciproca tra i territori.

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