Il film di Kubrick è facilmente accostabile a una delle pratiche di anti-terrorismo più discusse degli ultimi tempi. Con de-radicalizzazione si intende un processo psico-sociale che dovrebbe portare individui membri di organizzazioni estremiste ad abbandonare le loro convinzioni. In un recente articolo su Rivista Studio, c’è un’intervista a Christian Picciolini, un giovane italo-americano che dopo otto anni di militanza suprematista è uscito dagli skin head e ha fondato un’associazione che si occupa di aiutare le persone che decidono di uscire da gruppi estremisti. Il governo belga ha chiesto a Picciolini una consulenza per supportare un giovane di ventitre anni appena rientrato dalla Siria, dove aveva combattuto nei ranghi dell’IS. Gli ex-estremisti che cercano di usare in modo positivo la propria esperienza di vita offrendo consulenza e supporto nei programmi di de-radicalizzazione sono solo un segmento di un insieme vario di organizzazioni impegnate su questo fronte dell’anti-terrorismo.
In ambito europeo ha raggiunto un certo riconoscimento Il German Institute on Radicalization and De-radicalization Studies (GIRDS), un centro indipendente che si occupa di realizzare progetti all’interno delle carceri per prevenire le recidive degli estremisti. In un manuale per gli operatori dei programmi di uscita dal radicalismo, il direttore del GIRDS, Daniel Köhler distingue tra una de-radicalizzazione comportamentale e una attitudinale. Nel primo approccio, l’obiettivo dell’intervento è che l’individuo non compia nuovamente atti violenti, nel secondo invece si punta anche all’abbandono dell’ideologia che faceva da cornice alla violenza.
Ad oggi nel contrasto alla radicalizzazione estremista prevale l’approccio comportamentale, centrato sul carcere. Purtroppo come evidenzia Valentina Bartolucci, esperta di contro-terrorismo, i soggetti a rischio, anche arrestati per crimini di minore entità, possono radicalizzarsi all’interno della prigione. Anche in questo caso, il cinema racconta bene la realtà. Nel film di Jacques Audiard “Il profeta”, Malik è un diciannovenne francese di origine araba cresciuto tra orfanotrofi e riformatori; non sa né leggere né scrivere ed è condannato a sei anni di carcere per un fallito tentativo di rapina. In prigione, Malik non ha protezioni o amicizie per cui la vita in galera è subito molto dura. Il capo della malavita còrsa, comanda il carcere, e sceglie Malik come persona ideale per uccidere un arabo, di passaggio nel penitenziario. Malik, anche se non è convinto appieno, è addestrato dai còrsi con la copertura di secondini corrotti per compiere il primo vero delitto della sua vita.
Il carcere mi sembra una sorta di “Cura Ludovico”, poiché non affronta il nucleo ideologico del pensiero estremo. Tale considerazione, controversa e discutibile lo ammetto, mi è stata suscitata dal passaggio conclusivo dell’intervista a Picciolini: "L’arrivo di un figlio ha riempito la mia vita dandole un senso nuovo. Concretamente, però, la cosa più utile è stata conoscere da vicino le persone che pensavo di odiare. Aprii un negozio di dischi dove all’inizio vendevo solo white power music. Era un mercato di nicchia e, per sopravvivere, ben presto dovetti cominciare a vendere anche altri generi. Questo mi obbligò ad avere a che fare con una clientela più ampia: parlando di musica, ho incontrato neri, ebrei, meticci, gay e i miei pregiudizi sono crollati una conversazione alla volta".
Capisco bene che di fronte al terrore e all’estremismo il richiamo al tema del dialogo è facilmente etichettabile come buonista e velleitario. Tuttavia sono convinto che le alternative basate sulla costrizione non possano che ottenere effetti contrari a quelli desiderati, un po’ come nel film di Audiard, un mezzo delinquente diventa un vero criminale proprio in prigione.
Il pensiero estremo e la violenza che ne consegue necessitano di essere affrontati, depotenziandone la componente ideologica, non solo per via argomentativa, ma anche mettendo alla prova dell’esperienza le convinzioni degli estremisti. Si tratta di una posizione che non ha nulla a che fare con principi libertari, ma basata su constatazioni di ordine pragmatico. La testimonianza di Picciolini mi sembra in questo senso esemplare.