Tuttavia non si tratta dell’unica forma possibile di pensiero estremo. Concludere che il pensiero estremo costituisca una possibilità estranea all’Occidente (ex-, post-) cristiano, costituirebbe anzi a sua volta un esempio di pensiero estremo, se con tale locuzione si intende una forma mentis sostanzialmente binaria, che procede per grandi e insuperabili opposizioni (bene/male, noi/loro, passato/presente…), e che – a partire da premesse di buon senso, o comunque condivisibili ai più – estremizza ingiustificatamente le proprie conclusioni attraverso un salto logico sottaciuto.
Nelle considerazioni che seguono, vorrei brevemente discutere un caso di pensiero estremo che mi pare significativo: mi riferisco alle tesi esposte da Rod Dreher, editorialista e scrittore americano, nel suo libro The Benedict Option. A Strategy for Christians in a Post-Christian Nation, Sentinel, New York 2017.
Uscito da poche settimane negli Stati Uniti, il libro è già il più venduto del settore Christian Social Issues presso la più importante libreria online americana, mentre il New York Times l’ha definito il più importante libro religioso del decennio.
Se, come mi propongo di mostrare, il libro di Dreher costituisce un chiaro esempio di pensiero estremo, saremo costretti ad ammettere che tale forma di pensiero è una possibilità che riguarda da vicino non soltanto i nemici dichiarati dell’Occidente e del cristianesimo, ma anche alcuni dei loro sostenitori più entusiasti. Sebbene non si arrivi – in questo caso – alla esplicita esaltazione della violenza né tantomeno allo spargimento del sangue, in un caso come nell’altro la possibilità dell’integrità della vita di fede è legata a una interpretazione integralista tanto della dottrina quanto del mondo circostante: in entrambi i casi, si semplifica insomma la dottrina e si riduce il mondo a uno dei suoi aspetti (negativi), riconducendo ad esso tutti gli altri. Attraverso un salto logico se ne derivano quindi delle conseguenze che sono, appunto, estreme.
L’opzione benedettina
Fin dal suo precedente volume del 2006, dal titolo Crunchy Cons, Dreher – richiamandosi alle tesi del filosofo Alasdair MacIntyre sulle condizioni di una vita virtuosa – ha proposto un ritiro strategico dalla società americana “convenzionale” da parte dei cristiani conservatori e ortodossi (ortodossi dal punto dei vista della dottrina, non necessariamente della denominazione ecclesiale). È ciò che egli ha chiamato «opzione benedettina»: come Benedetto da Norcia, nel VI secolo, ha risposto al collasso della civiltà romana fondando un ordine monastico di persone che vivessero in comunità appartate e ritirate dal mondo, così oggi dovrebbero fare quei fedeli e quelle chiese cristiane che vogliano preservare la propria fede.
L’assunto fondamentale è che non è più possibile vivere da cristiani nella società (americana) del nostro tempo, la quale non è né redimibile né salvabile, e sia dunque necessario costruire nuove forme di comunità all’interno delle quali la vita cristiana sia possibile nelle sue radicali esigenze. La cultura moderna e occidentale, infatti, non offrirebbe più le condizioni quadro che consentano di vivere una vita cristiana autentica: il «Deismo Moralistico Terapeutico» che la caratterizza ha sostituito Dio con il Sé e con il comfort materiale.
Dato poi che i cristiani non hanno più alcuna speranza di influire sulle politiche pubbliche – per Dreher la presidenza Trump rallenterà un poco il processo di imbarbarimento, ma non invertirà sostanzialmente la direzione intrapresa, rappresentando lo stesso Trump non una soluzione ma un «sintomo» del declino (p. 79) – ai cristiani non resta che creare una società parallela, ispirata a una controcultura alternativa alla cultura mainstream. Quest’ultima, nata nel XIV secolo con il nominalismo di Occam, ha trovato il proprio compimento – attraverso alcune tappe fondamentali: il Rinascimento, la Riforma protestante, la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo, la rivoluzione industriale – nella rivoluzione sessuale dei nostri giorni.
Per vivere da cristiani, occorre dunque – secondo Dreher – una decisione personale radicale, il cui paradigma è la scelta monastica. Una vita dunque di ordine, di preghiera, di lavoro, di ascetismo, di stabilità, di comunità, di ospitalità (verso coloro che volessero a loro volta lasciare la società mainstream), di equilibrio: una vita ispirata a una regola che garantisca «un’isola di santità e stabilità nell’alta marea della società liquida» (p. 54). Come i monaci, i cristiani rimasti minoranza ininfluente dovrebbero abbandonare la politica quale luogo di impegno privilegiato e occuparsi piuttosto di cultura. L’unico grande valore politico per il quale dovrebbero battersi è quello della libertà religiosa, essenziale per la sopravvivenza dell’opzione benedettina in quanto scelta minoritaria.
All’interno del «villaggio cristiano» così costituito, le singole famiglie diverrebbero dei piccoli monasteri, non si avrebbe paura di essere anticonformisti, i legami comunitari ed ecclesiali sarebbero forti, si porrebbe al centro l’educazione attraverso istituzioni scolastiche ed educative ad hoc (e, laddove queste non siano possibili, attraverso il ricorso a una scolarizzazione assicurata interamente dalla famiglia, in privato), si privilegerebbe l’acquisto di prodotti cristiani, ci si offrirebbe reciprocamente lavoro tra cristiani, l’unica espressione possibile della sessualità sarebbe quella all’interno del matrimonio tra un uomo e una donna, si praticherebbe un «digiuno digitale quale pratica ascetica» (p. 226). Tutto questo, evidentemente, essendo pronti a pagare in prima persona un costo molto alto.
Due intuizioni importanti
Il volume di Dreher ha un indubbio merito: riconosce quelle inaggirabili mediazioni pratiche della coscienza che una tradizione filosofica e teologica marcatamente intellettualistica ha troppo a lungo trascurato. Tanto la coscienza morale quanto la coscienza credente vivono di mediazioni pratiche: culturali e affettive, collettive e personali. Riconoscere che la coscienza personale è debitrice nei confronti della cultura ambiente è un passo importante: alcuni moduli culturali favoriscono una maturazione della coscienza personale, altri possono mortificarla. La questione della cultura è dunque fondamentale, e Dreher questo lo riconosce con lucidità.
Al contempo – e si tratta di un ulteriore merito del volume – Dreher osserva come la fede richieda una decisione personale radicale: alcune condizioni culturali e alcune pratiche di vita possono certo favorire la fede o renderla più ardua, ma niente può sostituirsi alla decisione radicale del singolo, al “salto” che è costitutivo della fede. È il tema, caro a Kierkegaard, della singolarità.
Rispetto a Kierkegaard, tuttavia, Dreher opera un capovolgimento. Se per il pensatore danese del XIX secolo, l’ostacolo ad una fede autentica era costituito dalla cristianità stabilita – ovvero da quel regime sociale e culturale all’interno del quale, essendo tutti per nascita cristiani, diventa molto arduo esserlo per davvero, dato che la necessità di una scelta personale perde di evidenza – per Dreher l’ostacolo è precisamente l’opposto: non si può essere cristiani in un regime sociale e culturale in cui la maggioranza delle persone non lo sia più. Se dunque Kierkegaard riteneva che un regime in cui tutti sono per definizione cristiani costituisca un ostacolo alla fede autentica, la soluzione di Dreher va – all’opposto – nella direzione di creare dei microcosmi in cui tutti siano cristiani. Se per Kierkegaard la mancanza di alternative spegneva la fede, per Dreher la fede può esistere soltanto in un regime di monopolio cristiano impermeabile alla concorrenza di modelli alternativi.
Alcune conseguenze estreme
L’antimodernità di Dreher è di una palese modernità e costituisce un evidente esempio di quello slittamento, così bene studiato e descritto da Paolo Prodi, dal regime premoderno della profezia a quello moderno e secolarizzato dell’utopia. La carica profetica dell’opzione incarnata da Benedetto da Norcia nel VI secolo assume infatti nella proposta di Dreher le forme di una progettazione utopica: da una profezia voce e sogno di Dio, si passa a una utopia quale voce e sogno dell’uomo, nelle disponibilità e sotto la responsabilità dell’uomo, per la salvezza dell’uomo. In questo senso, come ha osservato Cioran, ogni utopia è essenzialmente pelagiana e quella di Dreher rischia certamente di esserlo.
Ma in che senso il progetto utopico di Dreher costituirebbe un esempio di pensiero estremo? Ritengo lo sia tanto a livello della lettura che egli fa della dottrina cristiana e del mondo moderno, quanto delle soluzioni che egli propone.
A livello dottrinale, è evidente che Dreher opera una riduzione della dottrina cristiana a uno solo dei suoi aspetti, a cui egli accorda un’enfasi ingiustificata. Il fatto che il libro dedichi uno spazio importante alla questione sessuale non lo rende di per sé estremo: si tratta di una questione cruciale per l’umanità del nostro (e di ogni) tempo. Inoltre è innegabile che il matrimonio tra un uomo e una donna costituisca – secondo la dottrina cristiana – il quadro all’interno del quale la sessualità trova le condizioni fondamentali per un pieno raggiungimento della propria verità umana. Non è tuttavia vero – e qui sta l’impercettibile salto logico che rende estremo il pensiero di Dreher – che, se cade la centralità di tale dottrina, cade il cristianesimo stesso, al punto che «perdere il chiaro insegnamento della Bibbia su tale materia significa rischiare di perdere l’integrità fondamentale della fede» (pp. 203-204). La visione cristiana in materia di sessualità si fonda sulla centralità della risurrezione a cui il corpo è destinato, ma il cristianesimo cade se cade la fede nella risurrezione, non se si indebolisce la coscienza circa le condizioni ideali di esercizio della sessualità umana, per quanto questa si fondi in qualche modo su quella.
Anche il moderno, nelle pagine di Dreher, appare fondamentalmente ridotto a uno solo dei suoi aspetti. Non a caso il culmine del suo processo di sviluppo è ritrovato in quella rivoluzione sessuale che – come si è visto – costituisce un nemico potenzialmente mortale per la fede cristiana. Il moderno è letto da Dreher secondo una logica binaria molto rigida, che non ammette concessioni: nessun aspetto della modernità ottiene infatti una esplicita valutazione positiva. Dico esplicita giacché – sorprendentemente – l’unico impegno concesso in politica a chi sposi l’opzione benedettina è quello a difesa della libertà religiosa. Ciò che Dreher tuttavia non può non vedere è che proprio la libertà religiosa costituisce una delle conquiste fondamentali della modernità: una conquista che il magistero cattolico ha riconosciuto e fatto propria soltanto da cinquant’anni a questa parte, a partire dal Concilio Vaticano II, dopo averla a lungo osteggiata e combattuta in molti documenti di alto livello: lo ha mostrato molto bene il grande giurista E.W. Böckenförde in un suo articolo.
Ma c’è di più. La lettura che Dreher propone della società americana del nostro tempo è certo disincantata, ma non di per sé estrema: in fondo non si discosta troppo dalle descrizioni che ne offrono i sociologi e i teorici della società liquida alla Bauman. Ciò che è estremo sono le conseguenze che egli ne deriva per la vita cristiana. Tra l’analisi sociologica proposta da Dreher e le conseguenze per la vita di fede, è precisamente la mediazione offerta dalla lettura della fede a mancare. Se da un punto di vista sociologico è innegabile che le chiese si svuotino e i costumi sessuali si allontanino sempre più dall’ideale propugnato dalla dottrina cristiana, dal punto di vista della fede questo non significa affatto che il mondo moderno sia rimasto senza Dio e che ai cristiani spetti dunque – non potendo riportare Dio nel mondo – di edificare un mondo alternativo. La fede infatti sa che Dio non ha abbandonato la città degli uomini: egli anzi ha scelto di abitarla. Ai cristiani non spetta dunque né di cercare di riportare Dio nella città, né tantomeno di edificare una città cristiana in cui Dio sia di nuovo presente: ai cristiani, come affermava l’allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio spetta piuttosto di andare alla ricerca di un Dio che ha scelto di abitare la città degli uomini: «Dunque niente proposte dotte, di rottura, asettiche, che partono da zero, che si pongono a distanza per “pensare” come fare affinché Dio viva in una città senza dio. Dio già vive nella nostra città e ci costringe – mentre riflettiamo – a uscire e andargli incontro per scoprirlo, per costruire relazioni di vicinanza, per accompagnarlo nella sua crescita e incarnare il fermento della sua Parola in opere concrete».
La fede riconosce che Dio è già nella città, per sua scelta. Non se n’è andato, non è stato cacciato, non si tratta di riportarcelo: si tratta di andare alla sua ricerca nel luogo che egli ha scelto di abitare.
Anche a livello di soluzioni adottate, la proposta di Dreher costituisce dunque un chiaro esempio di pensiero estremo.
La scelta del monastero come paradigma è emblematica. È certamente vero che la regola benedettina è lontana da ogni «fondamentalismo ed estremismo» (p. 74): è molto umana e attenta ad evitare ogni estremismo ascetico. Ma la vita che essa intende regolare rappresenta pur sempre un’eccezione che non può essere universalizzata, se non – appunto – attraverso una indebita estremizzazione.
La vita monastica è una vita estrema, nel senso di una vita-limite, che mantiene il suo valore e la sua carica profetica soltanto a condizione di non trasformarsi in una utopia mondana, ovvero in ideologia. La vita del monastero non può in nessun modo diventare il modello di vita di una famiglia. Un monastero è abitato da persone – generalmente dello stesso sesso – che hanno profeticamente rinunciato a condividere l’intimità con un’altra persona. Ma qualsiasi famiglia muore senza l’intimità: la famiglia non è un fatto meramente privato (come Dreher giustamente sottolinea), ma non è neanche un fatto meramente pubblico (come Dreher lascia talvolta intendere), essa è un fatto intimo. I miei amici monaci sono consapevoli del carattere di eccezionalità della loro vita e non si stancano di sottolinearlo.
In questo senso vedo una differenza radicale tra la proposta di Dreher e quella di Paul Evdokimov, il quale già nel 1963 proponeva un Monachesimo interiorizzato, sottolineando il carattere universale della spiritualità monastica e l’inferno del mondo moderno. Se Dreher propone un esilio in vista dello stabilimento di una società perfetta, per Evdokimov «i monaci non hanno più bisogno di abbandonare il mondo: l’asse del combattimento si è spostato e il problema dell’uomo escatologico […] è posto dalla storia stessa» (p. 22). Per entrambi, il monaco diventa l’ideale del cristiano, ma mentre Dreher trasferisce e rinchiude i cristiani in moderni e utopici monasteri, Evdokimov apriva i monasteri invitando tutti i cristiani a vivere nel mondo la verità essenziale dei tre voti monastici: la povertà come rapporto disinteressato con le cose, la castità come rinuncia al potere sull’altro, l’obbedienza come relativizzazione degli elementi umani e rifiuto dell’idolatria.
Cristianesimi estremi
Quello di Dreher è un pensiero che semplifica e riduce, inseguendo il sogno – tutto moderno – di una immediatezza che pretende di poter fare a meno del lavoro continuo della mediazione e della fatica che essa comporta. È un pensiero utopico, più prossimo all’ideologia (che programma la salvezza e le sue concrete modalità di realizzazione), che non alla profezia (che sa abitare lo spazio, aperto, dell’indisponibile e della sorpresa). È un pensiero mosso dalla paura, che senza dubbio rappresenta il sentimento fondatore del moderno – si pensi a Hobbes – e di tutte le ideologie securitarie del nostro tempo, paura che esso cerca di esorcizzare immunizzandosi da ogni rischio di contaminazione col male. È un pensiero che si propone di salvaguardare l’autenticità della fede etsi Deus non daretur, ovvero senza ricorrere allo sguardo sul mondo di cui è capace la fede stessa, e sollevando Dio dal problema di doverci salvare: appiattisce, così, l’identità cristiana sull’appartenenza cristiana. È un pensiero estremo: modernissimo nella sua estrema antimodernità.