La prima è la paura della competizione sul lavoro, e si collega con le ricorrenti crisi economiche. Il punto è che i fabbisogni di manodopera in certi settori sono evidenti: 2,3 milioni di immigrati lavorano regolarmente in Italia, pari ad oltre il 10% dell’occupazione. Ma i governi, nell’impossibilità di controllare la globalizzazione economica e segnatamente la delocalizzazione delle attività produttive, hanno cercato di riaffermare la propria sovranità, nonché la loro legittimazione agli occhi dei cittadini-elettori, rafforzando i controlli non sulla mobilità in generale (non sul turismo o sulla circolazione degli uomini d’affari), ma sull’immigrazione dall’estero di individui etichettati come poveri, e quindi minacciosi o bisognosi.
Una seconda paura è quella del welfare shopping. La protezione del welfare state ha fornito storicamente uno dei più potenti fattori di legittimazione delle chiusure nei confronti dell’immigrazione straniera. Mentre i regimi di welfare sono costruzioni tipicamente nazionali e collegate alla cittadinanza, volte a garantire la lealtà politica e il consenso dei cittadini, l’insediamento di estranei o la loro domanda di protezione sotto la bandiera dei diritti umani, rappresentano elementi di contraddizione: degli estranei chiedono di accedere ai benefici propri dei cittadini, benefici incorporati nell’idea stessa di cittadinanza nazionale moderna. I diritti sociali cessano di essere i “diritti umani nella vita quotidiana”, come afferma una pubblicità dell’Unione Europea, per diventare un privilegio da difendere contro chi non gode dello statuto di membro a pieno titolo della comunità dei cittadini. Poco importa che gli immigrati, in quanto prevalentemente soggetti in età attiva, siano contribuenti attivi del sistema di protezione sociale, soprattutto sulle voci più impegnative, pensioni e sanità. In tempi di crisi, se non lavorano, in quanto rifugiati accolti temporaneamente, madri casalinghe, minori o disoccupati, sono visti come un fardello insopportabile per le casse pubbliche; se lavorano, sono accusati di sottrarre preziosi posti di lavoro ai cittadini nazionali.
L’idea di una comunità nazionale omogenea e sostanzialmente coesa di fronte a minacce esterne si estende poi alla sfera etica e culturale: una terza paura riguarda la difesa dell’identità culturale della nazione. Gli alieni vengono visti come invasori culturali, portatori di costumi retrogradi e usanze incivili, responsabili di cedimenti relativisti sul piano dei diritti fondamentali. Qui si può notare un’altra evoluzione pericolosa del dibattito: questi argomenti stanno facendo breccia nel fronte “progressista”, intercettando le preoccupazioni per la difesa dei diritti delle donne. La contrapposizione tra “noi” (civilizzati) e “loro” (retrogradi) inalbera la bandiera dell’emancipazione femminile.
Su questo terreno s’innesta la paura delle minacce terroriste e più in generale relative alla sicurezza personale. Su questo piano, la comparsa sulla scena politica dell’islamismo radicale e la data emblematica dell’11 settembre 2001 hanno segnato se non uno spartiacque, di certo l’innesco di un’escalation nelle restrizioni, che i più recenti attentati di Parigi e Bruxelles hanno esacerbato. Come è già avvenuto per i messicani ai confini con gli USA, richiedenti asilo e modesti lavoratori manuali provenienti dal Sud del mondo rischiano di pagare il conto, sotto forma di più rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli attentati perpetrati da terroristi che sono quasi sempre nati o comunque cresciuti sul suolo europeo.
Se ora esaminiamo queste quattro ragioni di timore, ci rendiamo conto che rimandano a questioni di grande rilievo esistenziale e sociale: avremo ancora un lavoro, una protezione sociale, un’identità culturale, una vita sicura? Il problema riguarda l’identificazione degli immigrati e dei rifugiati come i responsabili di queste minacce, che in realtà li toccano più ancora di quanto non colpiscano i cittadini nazionali. L’inquadramento dell’immigrazione come un fattore di pericolo, con il rafforzamento dei controlli e quindi della visibilità degli immigrati, con l’implicita separazione tra “noi” e “loro”, ha di fatto reso manifesto e incrementato lo scontro di civiltà teorizzato da Huntington: la securitizzazione delle politiche migratorie rinforza stereotipi e contrapposizioni che il discorso politico ufficiale nega. La qualità della convivenza futura dipenderà invece dalla nostra capacità di evitare questa trappola esiziale.