E’ giunto il tempo di uscire dalla mentalità che ha portato a considerare l’affidarsi alla sorte come l’unica via per il riscatto e il cambiamento. Come per altre dipendenze anche nella ludopatia accanto al disagio economico c’è un deficit più radicale di speranza e di fiducia nelle istituzioni e nelle relazioni. La sfida che abbiamo di fronte è quella di farsi carico di queste ferite su cui si innestano nuove ed antiche fragilità.

«Mettere in gioco, giocare forte, giocarsi la carriera, giocarsi la vita o anche la constatazione che il gioco non vale la candela» sono tutte espressioni che ci ricordano quanto la dimensione del gioco sia legata a quella del rischio e dell’azzardo. Lo osservava il sociologo francese Roger Caillois nel 1967, nel suo saggio I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, con cui riproponeva lo studio dell’esperienza ludica.

Il tema era stato affrontato fin dal 1939 da Johan Huizinga, nel libro Homo ludens. L’antropologo olandese si era chiesto quali fossero le caratteristiche distintive del gioco: una delle principali consisteva a suo parere nel creare uno spazio diverso da quello della vita reale. Gioco si dice ludus in latino, e da qui deriva anche la parola in-ludere, illudere: «Il gioco – annotava Huizinga – non è la “vita ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria. Già il bambino sa perfettamente di “fare solo per finta”, di “fare solo per scherzo”» .

A trent’anni di distanza Caillois riconosceva questo tratto essenziale, ma rimproverava a Huizinga di non aver approfondito proprio l’aspetto dell’azzardo: in fondo le espressioni colloquiali prima ricordate rinviano a questa dimensione. Giocando ci si espone e non tutto rimane sotto controllo: c’è una disponibilità a chiudere gli occhi, ad ammettere che accanto all’ottimo esito ci possa essere lo sconveniente, la perdita, forse la rovina.

Ciò che però addomestica questo genere di orizzonti è proprio il fatto che il tutto si svolga “tra parentesi” rispetto alla «vita ordinaria o vera». L’azzardo è dunque contenuto, ha limiti ben precisi. «Il gioco – scriveva ancora Caillois – poggia sicuramente sul piacere di vincere l’ostacolo, ma un ostacolo arbitrario, quasi fittizio, istituito alla misura del giocatore e da lui accettato».

L’idea della “parentesi” può aiutare a considerare una delle radici della distorsione a cui oggi soprattutto il gioco d’azzardo si presta e del disagio di cui è sintomo. Per certi versi chi si ritrova avvolto nelle spire della dipendenza e soffocato dai debiti è come se non fosse più capace di chiudere la parentesi, di porre fine a qualcosa che è iniziato per gioco: non riesce ad uscirne, si dice.

Ma è solo un problema di “uscita” e di “chiusura”? Se la parentesi non si riesce a chiudere, molto spesso è perché in effetti non è mai stata aperta: il gioco non è stato accostato come una «sfera temporanea», con limiti precisi, ma come una attività grazie a cui trovare delle soluzioni proprio per le fatiche o le delusioni della vita ordinaria. Specialmente chi è più in difficoltà raramente chiede al gioco di azzardo di aprire uno spazio di il-lusione: molto più spesso il desiderio è quello di poter modificare proprio la realtà ordinaria.

Chi si mette in gioco spinto da questa attesa si sottrae alla protezione della parentesi: per questo, se l’aleatorietà volge al peggio, “uscirne” non significa a quel punto solo smettere di giocare. Significa uscire dalla mentalità che ha portato a considerare l’affidarsi alla sorte come l’unica via per il riscatto e per il cambiamento. Come per altre forme di dipendenza, anche nella ludopatia accanto al disagio economico c’è un deficit più radicale di speranza e di fiducia nelle istituzioni e nelle relazioni: la sfida di profondità è farsi carico di queste ferite su cui si innestano nuove ed antiche fragilità.

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