Il tema era stato affrontato fin dal 1939 da Johan Huizinga, nel libro Homo ludens. L’antropologo olandese si era chiesto quali fossero le caratteristiche distintive del gioco: una delle principali consisteva a suo parere nel creare uno spazio diverso da quello della vita reale. Gioco si dice ludus in latino, e da qui deriva anche la parola in-ludere, illudere: «Il gioco – annotava Huizinga – non è la “vita ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria. Già il bambino sa perfettamente di “fare solo per finta”, di “fare solo per scherzo”» .
A trent’anni di distanza Caillois riconosceva questo tratto essenziale, ma rimproverava a Huizinga di non aver approfondito proprio l’aspetto dell’azzardo: in fondo le espressioni colloquiali prima ricordate rinviano a questa dimensione. Giocando ci si espone e non tutto rimane sotto controllo: c’è una disponibilità a chiudere gli occhi, ad ammettere che accanto all’ottimo esito ci possa essere lo sconveniente, la perdita, forse la rovina.
Ciò che però addomestica questo genere di orizzonti è proprio il fatto che il tutto si svolga “tra parentesi” rispetto alla «vita ordinaria o vera». L’azzardo è dunque contenuto, ha limiti ben precisi. «Il gioco – scriveva ancora Caillois – poggia sicuramente sul piacere di vincere l’ostacolo, ma un ostacolo arbitrario, quasi fittizio, istituito alla misura del giocatore e da lui accettato».
L’idea della “parentesi” può aiutare a considerare una delle radici della distorsione a cui oggi soprattutto il gioco d’azzardo si presta e del disagio di cui è sintomo. Per certi versi chi si ritrova avvolto nelle spire della dipendenza e soffocato dai debiti è come se non fosse più capace di chiudere la parentesi, di porre fine a qualcosa che è iniziato per gioco: non riesce ad uscirne, si dice.
Ma è solo un problema di “uscita” e di “chiusura”? Se la parentesi non si riesce a chiudere, molto spesso è perché in effetti non è mai stata aperta: il gioco non è stato accostato come una «sfera temporanea», con limiti precisi, ma come una attività grazie a cui trovare delle soluzioni proprio per le fatiche o le delusioni della vita ordinaria. Specialmente chi è più in difficoltà raramente chiede al gioco di azzardo di aprire uno spazio di il-lusione: molto più spesso il desiderio è quello di poter modificare proprio la realtà ordinaria.
Chi si mette in gioco spinto da questa attesa si sottrae alla protezione della parentesi: per questo, se l’aleatorietà volge al peggio, “uscirne” non significa a quel punto solo smettere di giocare. Significa uscire dalla mentalità che ha portato a considerare l’affidarsi alla sorte come l’unica via per il riscatto e per il cambiamento. Come per altre forme di dipendenza, anche nella ludopatia accanto al disagio economico c’è un deficit più radicale di speranza e di fiducia nelle istituzioni e nelle relazioni: la sfida di profondità è farsi carico di queste ferite su cui si innestano nuove ed antiche fragilità.