I grotteschi balbettii della Brexit rappresentano oggi la più grande forma di promozione del valore della cooperazione tra stati che ha portato alla nascita dell’Unione Europea. Il vaso della cooperazione tra stati sovrani è stato costruito con fatica, con molti errori e limiti, ma è quando si rompe (per un paese come il Regno Unito) ci rendiamo conto di quanto prezioso fosse quel contenitore e di quanto è difficile pensare di rimettere assieme i cocci una volta che il vaso si rompe.
Europa semper reformanda est, ovvero per l’Unione Europea vale il famoso motto che si applica alla Chiesa Cattolica. I limiti della costruzione europea sono evidenti. Un progetto che è rimasto in mezzo al guado di un’unione monetaria che non è stata accompagnata da una maggiore integrazione ed armonizzazione delle politiche fiscali. Dare e ricevere fiducia (quello che chiamiamo capitale sociale) è il collante fondamentale del rapporto tra individui come di quello tra stati. La fiducia è un rischio perché implica il mettersi nelle mani altrui senza protezioni legali. Dare e ricevere fiducia tra paesi di culture diverse è ancora più difficile. I progetti che consentirebbero di sfruttare la massa critica della dimensione europea nella gestione del debito pubblico e dei problemi finanziari degli stati membri sono molti e tutti sul tavolo. Ma la loro attuazione è paralizzata dalla mancanza di fiducia reciproca, con responsabilità da entrambi i lati perché quando la fiducia latita il problema è sempre diviso tra la mancanza di fiducia da parte del soggetto A e la mancanza di meritevolezza di fiducia del soggetto B.
Nonostante tutto questo non possiamo gettare il bambino con l’acqua sporca. E dobbiamo domandarci quali problemi profondi nasconde l’euroscetticismo più estremo che ha portato una parte rilevante della nostra opinione pubblica e di quelle europee a pensare addirittura ad un’uscita dell’Italia dall’euro e ad indicarla come obiettivo programmatico dell’azione di governo. Questa ipotesi estrema è poi rientrata e negli ultimi tempi quasi nessuno ne parla. Ma non possiamo dimenticare come sia stata ventilata ed utilizzata nella campagna elettorale delle ultime elezioni politiche ed utilizzata come taxi per poter arrivare in parlamento.
L’euroscetticismo è a mio avviso il sintomo di una malattia più profonda tipica del nostro paese. Quella di cercare sempre negli altri l’alibi ai nostri limiti. Abbiamo bisogno di un nemico esterno (l’euro, l’Unione Europea, i migranti, i rom) per poter distogliere l’attenzione dal faticoso lavoro di miglioramento a cui dovremmo dedicarci. L’euroscetticismo è in fondo un’arma di distrazione di massa. Ce la prendiamo con l’Europa ma i dati di questi due ultimi trimestri dicono che siamo in recessione, unici nell’UE, e le previsioni per il 2019 ci indicano univocamente come ultimi della classe tra i 27. Ora la maestra (l’Unione Europea) avrà anche i suoi difetti ma ci dovremmo domandare perché tutti gli altri alunni fanno molto meglio di noi e perché lo spread tra i nostri titoli di stato e quelli portoghesi sia superiore ai 150 punti. Il motivo è chiaro agli addetti ai lavori. Un circolo vizioso nel rapporto tra Pubblica Amministrazione, politica e giustizia civile e procedure troppo complesse che richiedono una pletora di autorizzazioni ci hanno portato al paradosso di funzionari pubblici che firmano provvedimenti solo dopo l’ingiunzione di un giudice.
Non abbiamo bisogno di più soldi dall’Europa perché i soldi li abbiamo già ricevuti. Ci sono decine di miliardi di progetti di investimenti già finanziati che non riusciamo a far partire. Insomma non è l’Europa matrigna che ci impedisce di riprenderci perché le potenzialità ci sono tutte. Se miglioriamo il sistema paese risolvendo questo nodo, se utilizziamo gli strumenti tecnologici oggi disponibili per aggredire l’evasione (fattura elettronica, contrasto fiscale, riduzione dell’uso del contante così come sta avvenendo ad esempio in Portogallo) usando i proventi per pagare meno ma pagare tutti abbiamo tutto quello di cui c’è bisogno per ripartire.
Per superare l’euroscetticismo dobbiamo però entrare nel dettaglio degli argomenti dei neuroscettici. Che affermano che nell’eurozona non è possibile competere se non svalutando il costo del lavoro (dato che non si può usare più l’arma della svalutazione competitiva), che la svalutazione della neolira ci riporterebbe col vento in poppa. Ma l’orizzonte verso cui la visione neuroscettica vorrebbe muovere è quello del sovranismo monetario, ovvero l’idea che la ricchezza di uno stato sia nello stampare più moneta possibile, per soddisfare i bisogni dei cittadini, magari mettendola direttamente nelle loro tasche senza passare per il sistema bancario.
Si tratta di ragionamenti intuitivamente persuasivi ma che non fanno i conti con le caratteristiche vere dei sistemi economici. Il fattore competitivo più importante oggi è dato dalla formazione, dalle competenze e dall’innovazione. Che consente di risalire la catena del valore puntando alla qualità. Molte imprese e settori italiani vincenti nell’era dell’euro testimoniano che quella della riduzione del costo del lavoro non è la strada migliore. La concorrenza attraverso la svalutazione del cambio poi non è una panacea perché la svalutazione produce risultati positivi per un paese se l’effetto sulla maggiore convenienza delle esportazioni supera quello del maggiore costo delle importazioni. E la svalutazione è una droga con effetti temporanei che, in dosi continue e ripetute, riduce la qualità del sistema produttivo e rischia di alimentare l’inflazione.
Ma torniamo alla questione più profonda e sottile. Se stampare moneta a più non posso fosse la soluzione di tutti i problemi perché mai esisterebbero paesi ricchi e paesi poveri? In fondo la gran parte degli stati sovrani non fa parte di unioni monetarie ed è dunque libera di stampare tutta la moneta che vuole. Quello che tutti gli studenti di economia sanno è che la moneta ha valore nella misura in cui è un corrispettivo della forza dell’economia reale. Se il rapporto si sbilancia e la moneta è troppa si mettono in moto processi inflazionistici che ne riducono il valore. Se è vero che nei momenti di crisi finanziaria un’aumentata creazione di moneta è necessaria per rimpiazzare quella distrutta dal fallimento di intermediari finanziari arrecando dunque un beneficio all’economia, è anche vero che in momenti di normalità pigiare l’acceleratore sulla creazione di moneta non produce gli effetti sperati.
Chi pensa di trovare in una banconota e nella crescita del loro numero la forza di un paese non si accorge che in realtà ciò che conta è la fiducia che dietro quella banconota ci siano beni e servizi reali. E che la vera ricchezza di un paese è la somma dei sudori, delle competenze e della capacità di fare dei suoi cittadini e di tutti coloro che operano sul suo territorio contribuendo all’attività produttiva.
In quanto spiegato sopra ho cercato di far presente come la deriva antieuropea e sovranista rischierebbe di essere molto dannosa anche se l’uscita in sé non avesse costi. Un capitolo a parte ma importantissimo sarebbe quello di spiegare perché in economia non esiste il teletrasporto e il solo muovere il primo passo verso il sovranismo monetario sarebbe un disastro che porterebbe il paese alla bancarotta (come gli stessi no-euro ammettono).
Giro per la mia città e constato con piacere che i manifesti delle forze politiche, anche quelle più euroscettiche, parlano di andare in Europa per cambiarla non per uscirne. Il virus più sottile è però non debellato e sempre in agguato. La tentazione di cercare alibi, di non lavorare sui limiti del nostro sistema economico, di aggrapparsi al velleitarismo di soluzioni magiche che ci salvano da sole è sempre forte. E dobbiamo contrastarla.
Per approfondire
Leonardo Becchetti, Neuroscettici. Perchè uscire dall’euro sarebbe una follia, Rizzoli, Milano 2019.
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