E’ attaccata da tutte le parti. All’esterno, Putin e Trump fanno di tutto per dividerla. Vorrebbero che essa diventasse una mera espressione geografica. All’interno, partiti e leader sovranisti (come quelli che governano l’Italia) fanno di tutto per indebolirla. Vorrebbero svuotarla di competenze e di poteri, per trasformala in un’organizzazione di mera cooperazione interstatale. Mai, come, oggi, l’Unione europea era stata così minacciata. Nonostante i suoi successi nel garantire pace, nel promuovere la crescita economica, nel proteggere la democrazia, nel sostenere le aree territoriali e sociali svantaggiante, l’UE è entrata sotto il tiro incrociato di nemici esterni ed interni. Bisogna capire perché tutto ciò sia accaduto. E’ mia opinione che ciò sia dovuto alla debolezza dell’UE, non solo alla forza dei suoi nemici. Per questo, gli europeisti, se vogliono neutralizzare la sfida sovranista, debbono superarne le debolezze e rilanciare la missione storica.
I sovranisti sbagliano a sottovalutare la resilienza dell’UE. Quest’ultima è espressione di un sentimento che attraversa tutti i Paesi europei. I sondaggi di opinione confermano che, tra i cittadini dell’UE, vi è una maggioranza che è consapevole che senza il suo mercato saremmo più poveri, senza le sue istituzioni saremmo più conflittuali, senza la sua legislazione sovranazionale saremmo più esposti alle rivalità nazionali, senza la sua rule oflaw e la sua Corte indipendente saremmo inclini a scivolare verso esiti illiberali e autoritari. Solamente frange estremiste, a destra in particolare, ritengono che occorra uscire dall’UE, per ritornare ai vecchi Stati nazionali. Proprio perché hanno dovuto prendere atto di questo sentimento, i leader sovranisti come Marine Le Pen, Matteo Salvini o Viktor Orbàn hanno trasformato il loro nazionalismo in una strategia per svuotare dall’interno l’UE, riducendone poteri e competenze. Anche se non dicono (perché non lo sanno) quali poteri ridurre e come. Nello stesso tempo, però, ogni elezione nazionale ed europea mostra l’insoddisfazione di quei cittadini nei confronti dell’UE.
Di fronte a questa ambivalenza, gli europeisti non possono stare fermi, difendendo l’esistente, quasi che le conquiste dell’UE potessero essere sufficienti per generare consenso nei suoi confronti. È necessario riconoscere che il funzionamento dell’UE produce risposte insoddisfacenti dei problemi dei cittadini (portando così acqua al mulino dei sovranisti). Insoddisfacente è in particolare la logica intergovernativa che ha informato la gestione di policies che hanno un grande impatto sulle democrazie nazionali (come la politica budgetaria o la politica migratoria).
Con le crisi multiple dell’ultimo decennio, quella logica ha finito per caratterizzare il funzionamento dell’UE. Peraltro, dopo i successivi allargamenti, l’UE è diventata sempre più disomogenea, una disomogeneità che ha finito per rafforzare la logica intergovernativa. L’aspirazione sovranazionale a costruire “un’unione sempre più stretta tra i popoli europei” (come già recitava il Preambolo dei Trattati di Roma del 1957, formulazione poi ripresa da tutti i Trattati successivi) si è così appannata proprio con i successi del processo di integrazione.
Il progetto sovranazionale è stato sostituito da divisioni interstatali che hanno paralizzato il funzionamento dell’UE (basti pensare, da ultimo, alla paralisi decisionale relativamente allo Schema europeo di assicurazione sui depositi dell’unione bancaria, senza il quale quest’ultima rimarrà monca). Se l’UE non si riforma, difficilmente potrà reagire alle spinte centrifughe che l’attraversano. La difficoltà decisionale e l’assenza di legittimazione del processo intergovernativo hanno contribuito al distacco tra l’UE e i cittadini dei suoi Stati membri.
Stare fermi, per gli europeisti, significa sottoscrivere la propria lenta sconfitta. Occorre muoversi, con proposte concrete di policy ma anche con una visione innovativa del futuro dell’Europa integrata. È necessaria la costruzione accelerata di un’unione politica, per neutralizzare il sovranismo che vuole corrodere dall’interno la stessa idea di un’Europa integrata. Senza unità politica, l’Europa sarà preda di grandi attori internazionali, diverrà arena per le loro scorribande economiche e politiche, costituirà il premio dello scontro tra (vecchie e nuove) grandi potenze (dagli Stati Uniti alla Cina).
Poiché non pochi Stati europei sono contrari all’unione politica, è inevitabile ridefinire il progetto d’integrazione tenendo conto della pluralità di valori e interessi che sono confluiti nell’attuale UE. Dunque, separando il funzionamento del mercato unico e il progetto dell’unione politica. Il mercato unico deve essere inclusivo di tutti gli Stati europei, anche di quelli (come il Regno Unito o la Norvegia o la Svizzera) che sono attualmente esterni all’UE, a condizione che tutti rispettino i principi della rule oflaw e dell’economia aperta. Naturalmente, un mercato unico implica l’esistenza di organi e leggi sovranazionali (definiti da un trattato interstatale), senza i quali non si potrà garantirne il funzionamento.
Come potrebbe funzionare un mercato transnazionale che non riconoscesse alla Corte europea di giustizia il potere di risolvere le dispute tra Stati e attori privati secondo criteri giuridici universali?
L’unione politica, invece, dovrà essere esclusiva, aggregando gli Stati che condividono il progetto sovranazionale di un’unione sempre più stretta. Contrariamente al mercato unico, l’unione politica dovrà avere un fondamento costituzionale, cioè basarsi su un “politicai compact” che definisca i termini e i confini dell’aggregazione dei suoi Stati membri. Il “politicai compact” dovrà celebrare le ragioni dell’unione, stabilire la divisione delle competenze tra il centro e gli Stati, precisare i diritti e i doveri che l’uno e gli altri dovranno rispettare e, infine, identificare le istituzioni legittimate a prendere decisioni (e a rendere conto di queste ultime) al centro dell’unione. Un “politicai compact” che potrà essere emendato attraverso maggioranze qualificate, ma non all’unanimità come nei trattati interstatali. È questa l’unione federale che dovrà basarsi su una separazione tra le istituzioni e le competenze nazionali e sovranazionali, così da rafforzare la democrazia nazionale degli Stati e promuovere la democrazia sovranazionale delle istituzioni comuni.
Un’unione federale richiede un centro con poteri circoscritti, il cui scopo è quello di gestire le politiche che gli Stati membri, da soli, non possono gestire (come la politica monetaria, la politica migratoria e di controllo delle frontiere esterne, la politica della difesa e della sicurezza, oltre che la politica della competizione interna e del commercio esterno). L’unione federale non potrà non avere anche una dimensione sociale. Il resto delle politiche dovrà essere invece lasciato agli Stati membri e alle volontà democratiche dei loro elettori.
È plausibile ipotizzare che l’unione federale si basi sugli Stati che già ora condividono la sovranità monetaria oppure lo spazio comune di Schengen. Anche se, probabilmente, non tutti quegli Stati accetteranno di aderirvi. Potrebbe non aderirvi l’Italia sovranista, se quest’ultima si consoliderà politicamente. Tuttavia, l’Europa politica è una priorità da sostenere nonostante le difficoltà italiane. E, comunque, sarebbe bene che gli italiani decidessero, attraverso un grande dibattito nazionale, se vogliono andare a Visegràd oppure a Ventotene.
Un’unione federale compone, ma non confonde, le democrazie nazionali e la democrazia sovranazionale. L’unione federale unisce gli Stati membri sul piano politico (per questo motivo richiede un accordo costituzionale tra di loro), prima ancora che su quello economico. È bene che ci sia una convergenza economica tra quegli Stati, ma ciò che li tiene insieme è (e deve essere) soprattutto una scelta politica (preservata in un patto di natura costituzionale).
Se lo Stato federale enfatizza il potere (seppure cooperativo) del centro, l’unione federale enfatizza invece il dualismo di poteri tra il centro e gli Stati, la cui autonomia è una condizione del reciproco controllo. Occorre separare, separare, separare. Separare le democrazie nazionali e la democrazia sovranazionale e, quindi, separare le istituzioni che strutturano il processo decisionale di quest’ultima. Nello stesso tempo, occorre disegnare queste ultime in modo che siano in grado di prendere decisioni democraticamente legittime. Dunque, il contrario di fondere, fondere, fondere, come vuole la logica statalista, sia nella sua variante parlamentarista che in quella intergovernativa.
Per approfondire
Sergio Fabbrini, Manuale di difesa autodifesa europeista. Come rispondere alla sfida del sovranismo, Luiss, Roma 2019.
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