Credo sia utile cercare di ripercorrere la riflessione che ritroviamo nella tradizione culturale dell’Occidente a proposito dell’idea stessa di “città”. In maniera molto schematica si possono ritrovare due modelli contrapposti e nettamente distinti di città nella tradizione culturale occidentale. Questi modelli presentano rilevanti differenze l’uno rispetto all’altro, ma condividono un presupposto comune che va evidenziato. Entrambe queste forme di città vanno oltre la semplice synoikia.
Che cos’è la synoikia?
La synoikia è un concetto di origine greca ben chiarito in un passaggio di un dialogo di Platone Protagora (320 c – 323c). In questo dialogo attraverso il discorso del sofista Protagora, l’autore cerca di descrivere quale sia l’origine storica e concettuale della città. Per rendere più chiaramente comprensibile il suo ragionamento, il filosofo si affida al racconto di un mito, forse il più noto, importante e significativo dell’intero repertorio greco-latino, vale a dire quello che ha come protagonista Prometeo.
In principio – si racconta nel dialogo platonico – esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando poi venne il momento fatale della nascita anche per le stirpi mortali, gli dei ne fanno un calco in seno alla terra, mescolando terra e fuoco e tutti gli elementi che di terra e fuoco sono composti. Ma nell’atto in cui stavano per trarre alla luce quelle stirpi, Zeus e gli altri dei ordinarono a Prometeo e al fratello gemello Epimeteo, di distribuire a ciascuno facoltà naturali in modo conveniente, in modo che ciascuna specie potesse sopravvivere. Ma poiché della distribuzione pretende di occuparsi Epimeteo (il cui nome indica “colui che vede dopo”, ed è perciò sciocco e insensato), l’intero patrimonio delle qualità utili alla sopravvivenza viene consumato, prima che sia il turno degli uomini. Accade così che proprio la stirpe umana sembra destinata all’estinzione, perché mancante di ogni qualità utile alla sopravvivenza.
Si colloca in questo passaggio l’intervento di Prometeo. Spinto da philanthropia, vale a dire da amore per il genere umano, e temendo per la sua cancellazione, il Titano vìola la sfera di attribuzione di Efesto e di Atena, e dona agli uomini il fuoco e il sapere tecnico, pagando poi il fio del suo sacrilegio con un supplizio al quale sarà condannato da Zeus. Con i doni ricevuti da Prometeo, gli uomini potevano certamente acquisire e sviluppare attitudini importanti; in particolari, usando le arti connesse con la tecnica, erano diventati capaci di articolare la voce in parole, e poi di procurarsi case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che dava la terra.
Ma nonostante l’intervento “filantropico” del Titano, gli uomini vivevano sparsi perché erano primi di quell’arte – la politiké téchne – che può svilupparsi soltanto come espressione della polis, della città. Senza la polis non ci può essere politica – prosegue il mito – e senza politica non vi è neppure il polemos, la guerra, che è parte della politica.
“Giocando” sulla radice etimologica dei tre termini (polis, politikè tèchne, polemos, derivanti dalla radice indoeuropea ptol), il filosofo sottolinea insomma che, per poter sopravvivere il dono della tecnica è insufficiente, perché manca ciò che di gran lunga è più importante, vale a dire la poli-tica che può nascere solo quando vi sia una polis. Con la tecnica è possibile mettere vicino l’una all’altra delle case, cioè fare una syn-oikia. Ma la synoikia non coincide con la città.
Platone sostiene che affinché ci sia città non basta mettere insieme, vicine, una pluralità di case. Non è sufficiente il syn-, il “con”, oikos, quello che potremmo chiamare il “con-case”, la mera coabitazione. Affinché vi sia città, occorre che unitamente al dato architettonico, urbanistico, siano presenti alcune qualità morali.
Secondo il filosofo una città è tale solo se tra i cittadini che la costituiscono, intercorrono relazioni di rispetto reciproco e di giustizia. I termini greci usati da Platone sono “aidos”, il rispetto reciproco, e “dike”, la giustizia. Insomma la città non è la semplice coabitazione, non possiamo riconoscerla dall’esistenza di un aggregato di case, perché la città scaturisce principalmente quando fra i cittadini sussistono rapporti di rispetto reciproco e giustizia.
Chiarito questo, il primo modello di città a cui vorrei ora richiamarvi è la polis greca.
La polis è il primo modello, non solo in ordine cronologico, ma è un punto di riferimento che tutt’oggi è tenuto presente per la immaginazione della città del futuro. Questo modello non viene descritto solo nei testi degli storici come Tucidide, ma trova una descrizione particolarmente suggestiva nella grande tragedia classica, nel quinto secolo, e trova la sua espressione più compiuta nell’Atene di Pericle. Che caratteristiche ha la polis greca, questo modello che secondo alcuni potrebbe essere ancora oggi riproposto?
La polis greca è una città destinata ad accogliere persone che hanno la stessa origine. Cioè che condividono lo stesso “ghenos”. Potremmo tradurre questo termine greco dicendo che appartengono alla stessa “stirpe”. La polis quindi si fonda sulla comunanza di un “ethos”, potremmo chiamarlo di una moralità, di un costume, di un’inclinazione comune. Essa si fonda sulla condivisione della stessa radice. Ciò che caratterizza questo primo modello di città è dunque l’origine comune. Ma come conseguenze inevitabili di questo modo di concepire la città vengono quattro caratteristiche che indicherò alla vostra attenzione.
La prima. Una città così concepita, cioè caratterizzata dalla comunanza dell’origine, è una città che non cresce, non si allarga ma si limita a riprodursi proprio per non allontanarsi dalla comunanza dell’origine.
Seconda caratteristica. Una città così concepita deve per necessità rinchiudersi dentro i propri confini per salvaguardare la propria identità. Ogni apertura nei confronti dell’altro rischia di contaminare la purezza di quel “ghenos” di quella “stirpe” che è il principio di individuazione della città. Da questo punto di vista la città greca non può che essere separata e distinta rispetto ad altre città e non può che accentuare questo aspetto di separatezza rispetto ad altre città.
Terza caratteristica. Una città così costituita ha a suo fondamento non la legge, ma la stirpe. Nell’eventuale dissidio tra l’appartenenza alla stirpe e il rispetto della legge a prevalere è la prima. Ne abbiamo un esempio particolarmente suggestivo “nell’Antigone” di Sofocle dove confliggono due principi opposti. Da una parte Antigone, la quale vorrebbe dare comunque sepoltura al cadavere del fratello caduto in combattimento. La giovane donna vorrebbe corrispondere a ciò che l’appartenenza al “ghenos” impone. Non importa se Polinice è venuto in armi contro la sua città di origine. Non importa se egli si sia dunque comportato come un “nemico” della sua stessa città.
L’appartenenza alla stirpe fa sì – secondo la convinzione espressa da Antigone – che al fratello morto in battaglia debbano essere riconosciuti gli onori della sepoltura all’interno del territorio della polis. Di parere opposto è invece Creonte, lo zio di Antigone e Polinice, il sovrano reggente la città di Tebe. Egli pretende il rispetto rigoroso della legge della città, l’obbedienza rispetto al decreto da lui emanato, secondo il quale la salma del nipote che aveva avuto l’ardire di rivolgere le armi contro la sua stessa città doveva restare insepolta. Tra queste due esigenze, l’esigenza della stirpe e l’esigenza della legge, prevale l’esigenza della stirpe. I cittadini in qualche misura sentono come prevalente l’appartenenza al “ghenos” piuttosto che il rispetto della legge. La vera eroina della tragedia, colei che è destinata a restare come simbolo della superiorità della legge morale, rispetto alla legge positiva, è Antigone, la quale si erge a tutela della superiorità del “ghenos”.
Ma il punto particolarmente significativo che richiede una riflessione più attenta è il quarto. Una città costruita con le caratteristiche che stavo riportando è sempre alle prese con la prospettiva della guerra. Ne abbiamo due conferme, una di carattere storico, l’altra di carattere linguistico. Le città greche sono perennemente in guerra l’una contro l’altra. Se leggiamo i testi che si riferiscono al periodo di maggior benessere economico delle poleis greche noi troviamo che ciò che prevale anche dal punto di vista dell’ordinamento della città in pace è il riferimento alla guerra. La città stessa, la sua organizzazione, l’educazione dei cittadini è sempre tutta in funzione delle esigenze della guerra.
Ma ne abbiamo una conferma anche dal punto di vista linguistico visto che – come già si è accennato in riferimento al mito di Prometeo riletto da Platone – alla radice del termine “polis”, città, troviamo la stessa radice, “ptol”, che troviamo nel termine “polemos”, e cioè nel termine greco che indica la guerra. Polis e polemos, città e guerra, formano un’unità sostanzialmente indissolubile. Insomma se l’appartenenza alla stirpe è il presupposto in base al quale si costituisce la città, è inevitabile che prevalga un criterio di inclusione rigido e restrittivo. Ne consegue che questo criterio non può che configurarsi anche come pregiudiziale ostilità verso tutto ciò che risulti esterno alla città costituita sul “ghenos”. Quanto più rigido e restrittivo è il criterio di inclusione, tanto più bellica sarà la forma della relazione con l’altro. Insomma se assecondiamo questo modello di città dobbiamo abituarci a vivere nella costante insicurezza che è connessa con l’inscindibile relazione tra città e guerra, tra polis e polemos.
Sia pure in forma abbreviata e incidentale, si può osservare che le conseguenze inevitabilmente discriminatorie, derivanti da un’assunzione univoca e condizionante del criterio del ghenos, nel mondo greco antico sono in qualche misura temperate dall’istituto della xenia, vale a dire da quel complesso di regole non scritte e di prassi consuetudinarie che imponevano il rispetto e l’accoglienza dello xenos, e cioè dello straniero. Per un arco di tempo che si estende dai poemi omerici (VIII secolo a.C.) almeno fino alle Metamorfosi di Ovidio, lo straniero, lo xenos, l’ hostis, è letteralmente sacro. “Nefando, innominabile crimine” è definito nell’ “Ecuba” di Euripide l’atteggiamento di chi sia echtroxenos, “ostile allo straniero”. Sempre, in qualunque circostanza, quali che siano le condizioni, lo straniero deve essere accolto, aiutato, ospitato. Nessuna eccezione, né alcuna esenzione, è concepibile, perché per l’uomo greco lo straniero è immediatamente anche ospite.
Da un lato, insomma, la fondazione sul ghenos della polis, e la coappartenenza della polis stessa alla “famiglia” linguistica e concettuale dominata dal polemos, fa della città greca una realtà chiusa e autoreferenziale, esposta costantemente alle insidie della guerra con altre realtà simili. Ma, dall’altra parte, la xenia porta con sé una capacità di relazione e di apertura che, sia pure fino ad un certo punto, bilanciano il rigido criterio di inclusione su cui è costruita la polis.
Nettamente distinto rispetto al modello della polis greca è il modello della civitas romana. La civitas romana è fondata, costituita ed alimentata da persone che appartengono a culture differenti le quali scelgono di assoggettarsi all’imperio della stessa legge. Noi potremmo dire che i cittadini romani non sono uniti dalle stesse origini, cioè quelle del “ghenos”, ma dallo stesso fine.
La civitas romana è il confluire di diversi “cives” che sono tra di loro differenti per religione, cultura, etnia e che si danno tuttavia la stesse leggi e che vivono quindi nella pax che è assicurata dalla concordia romana. Questo ideale della concordia che ritroviamo nella tradizione successiva come in Sant’Ambrogio e Sant’Agostino.
Le conseguenze più rilevante di questo modello di città, città come civitas romana, inclusiva e non esclusiva, accomunata dal fine piuttosto che dall’origine, è che la città è sempre mobile, dinamica. Essa è sempre “augescens” cioè costantemente crescente e che inoltre ciò a cui essa tende è un’espansione che conduca tendenzialmente a trasformare “l’orbis”, l’intera struttura del mondo, in “urbs” cioè in città. Quello che oggi potremmo chiamare l’obiettivo della globalizzazione, la trasformazione dell’ ”orbis” in “urbs”.
Quale riferimento scegliamo per la nostra città? Quella che si fonda sull’origine o quella che ha come principio di individuazione il fine? La città il cui legame fondamentale è la stirpe, l’appartenenza o il legame fondamentale che vogliamo costruire è la legge, la concordia, la pax?
La comunità pensiamo che si formi attraverso meccanismi sempre più rigidi, discriminatori, di inclusioni che comportano esclusione, o al contrario attraverso un “augescere”, un crescere che includa sempre più largamente? Fermo restando che anche in questo caso è necessario andare oltre al modello della synoichia, della semplice coabitazione.
Cosa scegliamo, la città che non cresce e che è chiusa in sé stessa, la città della paura, dell’insicurezza costante, sempre sull’orlo del polemos, o la città che accetta la legge e vive sotto la concordia?
Credo che questo obiettivo che oggi si nomina con il termine globalizzazione e che ha queste venerande origini nella cultura latina possa essere il nostro punto di riferimento, quello di un mondo, di un “orbis” che possa diventare un “urbs”, retto sulla base del rispetto reciproco e della giustizia.
* Testo di riferimento della relazione che verrà proposta nell’ambito dell’incontro nazionale di studi delle Acli (Trieste, 13 al 15 settembre 2018)
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