La compenetrazione fra il Regno di Dio e il piano temporale, in ogni istante della vita umana, ci pone al riparo sia dal ritorno invasivo delle teologie politiche sia dalle seduzioni dell’immanenza che minacciano di asservire la persona a disegni pre-comprensivi e degradanti per la sua dignità.
Nella riflessione papale, infatti, ogni binomio – apparentemente – antinomico (fede/ragione, libertà/verità, ma anche individuo/comunità, ecc.) tende a restituire un’immagine coesa e dinamica del divenire – un divenire non caotico, certo, ma ordinato nella superiore prospettiva della carità e della verità. Come tradurre questa intuizione e questi insegnamenti in criteri di orientamento per il fedele e, innanzitutto, per il cittadino? A ciò soccorre proprio la dottrina sociale della Chiesa, che è appunto quel corpus dottrinale deputato a valorizzare le contingenze della quotidianità e a fornire criteri di discernimento pratico alla luce della vocazione trascendente di ogni uomo. “La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo ‘statuto di cittadinanza’ della religione cristiana”, troviamo scritto al par. 56.
In questa prospettiva, non vi è campo d’azione umana (dalla economia alla politica, dalla bioetica all’ecologia) che non possa trovare orientamenti per la soluzione delle proprie difficoltà e delle proprie aporie, e rimedi alla propria marginalità e alle proprie insufficienze. Tutti questi ambiti, e molti altri, sono passati in rassegna puntuale nell’Enciclica – quasi un vademecum compilato per accompagnare per mano il lettore nelle affascinanti sfide della contemporaneità.
A chi imputa aprioristicamente cupezza e rassegnazione ai toni della riflessione cristiana, il Pontefice sottrae ogni argomento, non arroccandosi in anacronistiche geremiadi del tempo passato, quanto piuttosto proponendo una Tradizione rinnovata e aperta al contributo delle scienze sociali. In tal senso, una parola chiave per interpretare sotto questo ambito il documento è: “fiducia”. Riecheggia qui ovviamente quell’invito a non avere paura rivolto dal suo Predecessore al secolo Ventesimo, e declinato stavolta entro una congiuntura economica difficile e preoccupante. Sicché non è un caso che il termine “crisi” ricorra relativamente poche volte nelle circa 140 pagine della lettera: la riflessione si muove invece dalla necessità di ripensare un paradigma di sviluppo che possa intercettare le ansie del tempo presente collegandole con una considerazione integrale della condizione umana, sulla scia dell’insegnamento della Popolorum progressio di Paolo VI. (“La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo”, par. 18).
Viene pertanto da pensare che la vera globalizzazione di cui si parla nel testo, non sia riducibile solo a quel fascio di fenomeni sociali, politici, culturali ed economici a cui la dottrina e l’informazione convenzionalmente alludono, quanto a una proposizione della “universalità” etimologicamente contenuta nella cattolicità ecclesiale. In altre parole, innanzi a fenomeni globali servono interpretazioni universali, dunque “cattoliche”. Accanto a ciò, anche gli attributi di interconnessione e di interdipendenza che si sogliono accostare al fenomeno della globalizzazione, sono qui traducibili in termini di relazione e di comunione, perché il rapporto tra i mondi e gli spazi della nostra vita, così come quello tra “persona e comunità”, è “di un tutto verso un altro tutto” (par. 53).
E’ su questo piano che incontriamo uno dei dilemmi fondamentali della nostra epoca relativista: nell’organizzazione della vita associata possiamo prescindere dalle istituzioni, quando queste si rivelano inadeguate a gestire il cambiamento, obsolete rispetto agli impulsi e alle necessità dei singoli, farraginose nel loro funzionamento, fallaci nel soccorrere i più deboli? La risposta è così articolata: bando al feticismo delle istituzioni e delle procedure, giacché l’imperfezione e la contingenza sono proprie come dell’uomo, antropologicamente segnato dal limite originale, così anche dei suoi prodotti e dalle sue emanazioni; ma guai a considerare “la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della polis” (par. 7). E ancora: “Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di polis, di città (ivi). Ciò non esclude dunque una critica alle istituzioni stesse, e tra le altre a quegli organismi internazionali e a quelle Ong molto burocratiche e poco trasparenti che spesso gestiscono la transizione allo sviluppo dei Paesi più arretrati con esiti inconcludenti; ma al tempo stesso si ribadisce l’appello già di Giovanni XXIII e poi di Giovanni Paolo II per la costituzione di “una vera Autorità politica mondiale”, “un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione”, peraltro “già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite” (par. 67).
Proprio la previsione di un paradigma concertato di interazione fra pubblici poteri “rinnovati” e di “altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato” (par. 41), alla luce dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, costituisce una proposta di governance in grado di rendere ragione della crescente complessità dello scenario internazionale e di adombrare felicemente l’avvento di un paradigma del servizio e del dono che possa a mano a mano, per prove ed errori, sostituirsi a quello dell’imperium, inteso come comando autoreferenziale e come potere (semi)dispotico, quando non apertamente totalitario, della Politica sul cittadino, dell’arbitrio sulla verità, dell’egoismo sulla carità.
Questo articolo è stato pubblicato da Il Foglio il 14 luglio