Ci si può avvicinare alla terza enciclica di Benedetto XVI in due modi. Il primo, più semplice, è quello di una verifica degli scopi e dei limiti dell’economia globalizzata del ventunesimo secolo. È vero – come sottolinea il Papa – che la Chiesa «non ha soluzioni tecniche da offrire». Questo nuovo e ricco capitolo della sua dottrina sociale non si limita comunque a ribadire i principi generali dell’impegno “non negoziabile” per la giustizia, la pace e uno sviluppo autentico perché finalizzato alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Si ritrova, certo, un vocabolario ormai consolidato: la necessità di orientare l’economia di mercato e la misura di efficienza del profitto alla realizzazione del bene comune; il dovere di liberare l’intera famiglia umana dal giogo della fame, della miseria e dell’ignoranza; il metodo della sussidiarietà; il primato del lavoro e della persona; i doveri nei confronti dell’ambiente. Ma l’enciclica entra allo stesso tempo nel vivo di esperienze e temi come il non profit, la finanza etica e il microcredito, il capitalismo degli stakeholders e la responsabilità sociale, lo sfruttamento delle risorse energetiche, le regole del commercio internazionale, i flussi migratori, il ruolo dei cittadini-consumatori e delle loro associazioni. Non tace sulle nuove forme di sfruttamento legate ad una pratica disinvolta della delocalizzazione piuttosto che al turismo sessuale. Offre, soprattutto, un’interpretazione della logica del dono e della gratuità come correttivo dall’interno della logica puramente commutativa del contratto, con l’obiettivo di superare la contrapposizione fra l’interesse autodiretto da una parte e i valori della solidarietà e della fiducia reciproca dall’altra. Con una importante ricaduta politica: non si nega il ruolo degli stati, ma si guarda ad una riorganizzazione policentrica e plurivalente del potere e delle stesse organizzazioni internazionali, in vista di un governo finalmente efficace della globalizzazione.
Fermarsi a questo livello significa però mancare la vera sfida dell’enciclica. Non si tratta di ripetere con Adam Smith che una società basata sull’amore, la gratitudine e l’amicizia (la carità) è alla resa dei conti anche più fiorente e felice. E nemmeno di fissare i paletti di una disuguaglianza tollerabile, passabilmente compatibile con il vincolo della fratellanza universale imposto dalle religioni e con la sua versione “laica” consegnata alle varie dichiarazioni dei diritti umani. Il tema – lo dicono senza equivoci il titolo e l’Introduzione – è la Verità. Il confronto è ancora una volta, come in tutto il magistero di Benedetto XVI, sull’idea di razionalità, rattrappita dal moderno nella sua versione empirica, strumentale, utilitarista e che occorre invece rilanciare in tutta la sua portata pratica e addirittura metafisica. Non c’è giustizia – in economia come in politica – senza questa ragione. E la Caritas in veritate va interpretata di conseguenza secondo una triplice scansione.
La prima è quella di razionalità formale e materiale, nei termini già definiti da Weber. L’economia ha affermato la sua autonomia dall’etica e anche dal diritto autoassicurandosi della neutralità e univocità del suo metodo: il puro calcolo di condizioni e mezzi per la gestione efficiente di beni, servizi e bisogni. In virtù di questa “universalità” si è imposta, insieme alla tecnoscienza, come l’asse di riferimento anche simbolico della globalizzazione, con il rischio di una deriva ideologica che può sfociare nella riduzione dell’umanità a mezzo, “misurato” come tutti gli altri nel medium del denaro. Ma l’agire economico resta una forma del fare dell’uomo e dunque della sua libertà di orientarsi a scopi e fini, alla sostanza di specifiche esigenze etiche, politiche, di ceto o di qualsiasi altra specie. La pretesa autonomia dell’economia ha spinto in troppe occasioni ad abusare dei suoi strumenti «in modo persino distruttivo». Ecco perché per Benedetto XVI questo è uno degli ambiti nei quali più urgente si avverte il bisogno di un allargamento del concetto di ragione e del suo uso, se non si vuole smarrire «la visione dell’intero bene dell’uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano» (§§ 34 e 31).
La seconda, necessaria scansione è quella di storia e natura. L’economia non si “raddrizza” semplicemente facendo appello alla sensibilità morale degli individui. Occorre riconoscere che un’etica economica che prescindesse dall’ancoraggio al valore immutabile delle norme morali naturali «rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni». È il rischio che si corre quando i diritti non sono limitati dai doveri fissati da un’antropologia i cui contenuti non sono ostaggio di un malinteso pluralismo, non dipendono dalle mode e neppure dalle deliberazioni di un’assemblea, non possono «essere cambiati in ogni momento» (§§ 45, 59 e 43). Definendo la Caritas in veritate un’enciclica sociale, in realtà, se ne coglie solo l’aspetto per così dire “applicativo”. La questione centrale posta da Benedetto XVI è appunto la questione antropologica, cioè l’alternativa secca fra un’umanità chiusa nel divenire di un orizzonte senza Verità, sorda ad ogni prospettiva di senso che non venga da essa prodotta e per questo facile preda del potere di una tecnica assolta dalla sua responsabilità morale e, dall’altra parte, il riconoscimento dell’umanità e del suo sviluppo come vocazione, esperienza che è sì di libertà e tuttavia incapace «di darsi da sé il proprio significato ultimo» (§ 16).
Solo in questa prospettiva si comprende l’affermazione, altrimenti sorprendente, che la bioetica è il presupposto dell’etica economica, che in essa, non nelle borse e nei mercati, «si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale». È infatti nella bioetica – nei laboratori della fecondazione in vitro e della ricerca sugli embrioni, così come nella mentalità eutanasica che è espressione «non meno abusiva di dominio sulla vita» – che emerge la domanda decisiva. L’atteggiamento dell’uomo di fronte alla vita che nasce e muore, la sua disponibilità ad accoglierla e rispettarla o, al contrario, la sua volontà di ridurla a mezzo dei suoi desideri, pongono «con dramamtica forza la questione fondamentale: se l’uomo sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio» (§§ 74 e 75). Immanenza o trascendenza: questa è l’ultima, essenziale alternativa della carità. Il Papa conclude riprendendo dalla Populorum progressio una citazione di De Lubac: «L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano», perché senza Dio lo sviluppo o viene negato o viene affidato alle mani dell’uomo, «che cade nella presunzione dell’auto-salvezza» (§ 78 e 11). In Gesù di Nazaret Benedetto XVI aveva definito senza mezzi termini «un insieme di chiacchiere utopistiche prive di contenuto reale» la pretesa di costruire la pace e la giustizia a prescindere da Dio. La Caritas in veritate non è meno esplicita nell’affermare che «l’adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo integrale» (§ 4). La via dell’economia si ricongiunge così alla via maestra di questo pontificato: il conflitto fra la ragione e la fede deve essere superato, perché nel conflitto si perdono entrambe.