Il modello di docenza universitaria attualmente vigente è caratterizzato dalla segmentazione in tre ruoli diversi (ricercatori, professori associati, professori ordinari). Il passaggio dall’uno all’altro ruolo non si configura come una progressione all’interno di un’unica carriera, ma come un autonomo accesso dall’esterno, privo di continuità sostanziale e formale. Coerentemente, le progressioni economiche (fino ad oggi automatiche e non valutative) sono autonome all’interno di ciascuna carriera, consentendo che un ricercatore anziano, che non si è mai sottoposto ad alcuna valutazione di produttività scientifica, possa conseguire una retribuzione significativamente più alta di quella di un ordinario di recente nomina.
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Il modello di docenza universitaria introdotto dal DdL Gelmini continua a mantenere la segmentazione delle carriere, ma impone una valutazione di produttività scientifica per l’attribuzione delle progressioni stipendiali all’interno di ciascun ruolo, senza alcun riconoscimento di avanzamento professionale.
La direzione è giusta perché impone una maggior produttività, fermo restando che la previsione di spesa deve essere mantenuta fissa: il legislatore, infatti, deve immaginare performances positive di tutti e tenersi pronto a corrispondere quanto avrebbe già dovuto in regime di automatismo retributivo.
Tuttavia, il percorso intrapreso non deve essere interrotto. È necessario fare un ulteriore passo e collegare, in forma ancora più significativa e lineare, l’avanzamento di carriera con la produttività.
Da una parte, il progetto riconosce il merito e lo premia con la progressione economica, senza alcun limite agli avanzamenti acquisibili fino all’età pensionabile. Dall’altro, si introducono due diversi livelli di abilitazione che dovrebbero permettere il passaggio ai ruoli superiori.
Sembrerebbe molto più logico che la progressione economica fosse più rigorosamente legata al riconoscimento professionale nel duplice senso di impedire avanzamenti economici (almeno oltre certi limiti) per coloro che non riescono a conseguire l’abilitazione per i livelli superiori e di riconoscere, invece, automaticamente l’avanzamento professionale a coloro che conseguono l’abilitazione (evitando l’inutile complicazione di concorsi “interni”).
L’attuale struttura del disegno di legge presenta il limite di continuare ad insistere sullo spezzettamento dei ruoli di docenza, anche quando cancella gli automatismi economici, creando in tal modo due autonomi sistemi di sviluppo, ambedue fondati sul merito: uno relativo alla progressione economica, l’altro relativo alla progressione di carriera.
Il risultato sarebbe quello di avere persone alle quali può venire riconosciuto, per merito, un livello retributivo più alto di chi ha avuto accesso al ruolo superiore, ovviamente, senza considerare che quel merito, nella sostanza, non è stato sufficiente a far conseguire un’abilitazione.
Forse sarebbe ora di smetterla di immaginare la docenza universitaria strutturata in ruoli differenziati e di pensare ad una carriera unica, differenziata per ragioni di merito, con il riconoscimento di diversità di funzioni e di retribuzioni ai diversi livelli di maturità scientifica conseguiti.
La semplicità garantirebbe più trasparenza, maggior governabilità e, con ogni probabilità, più stimoli alla produttività.
Direi che alla Ragioneria dello Stato, più che la verifica della copertura di ‘nuovi’ posti di professore, che altro non sarebbe se non la restituzione di una parte dei tagli già applicati al sistema universitario, si dovrebbe chiedere, piuttosto, la valutazione dei costi dell’irrazionalità di sistemi che perpetuano modelli superati, con l’aggravante dell’incremento di incoerenza interna.