Pubblichiamo un articolo già comparso lo scorso 6 novembre su www.multiversitas.it

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Il clamore suscitato dalla conversione in legge del D.L. 112/08 e dalle conseguenze che le disposizioni in esso contenute avrebbero per il sistema universitario italiano, è stato da più parti affermato, può e deve costituire un’occasione per ripensare complessivamente l’architettura dell’università italiana;

per renderla più efficiente, maggiormente in grado competere a livello europeo e mondiale sia per quanto riguarda la qualità della formazione che quella della ricerca. I fattori su cui puntare sono innanzitutto trasparenza, rigore, valutazione, risorse, internazionalizzazione.
Eppure nel dibattito di questi mesi, un altro elemento cruciale è passato purtroppo sotto silenzio. Mi riferisco specificamente al ruolo della “partecipazione”, in particolare alla partecipazione degli studenti ai processi decisionali e alle scelte strategiche delle singole facoltà e delle università nel loro complesso. Chiunque abbia partecipato a un qualsiasi consiglio di facoltà o a un senato accademico, potrà testimoniare che lo spazio lasciato agli studenti è del tutto marginale. Questo principalmente per due ragioni: spesso i rappresentanti sono eletti da esigue minoranze di studenti votanti e quindi finiscono per essere poco rappresentativi degli studenti nel loro complesso e, ancor più spesso, la loro azione appare disinformata, disorganica e quindi, poco incisiva.
Perché da una parte vediamo che sempre più le aziende private cercano il massimo coinvolgimento dei loro clienti in tutte le fasi di progettazione, produzione e valutazione dei beni o dei servizi che esse producono, investendo ingenti risorse nell’ambito della customer satisfaction, e dall’altra l’Università che trascura sistematicamente di rilevare adeguatamente le esigenze, i desideri, i bisogni dei suoi studenti? Chiediamoci, per esempio, quanto sono utili praticamente, i risultati delle rilevazioni sulla qualità della didattica.  
Perché non un’università, ad iniziare dalla nostra per esempio, pensata e ripensata attraverso un sempre maggiore coinvolgimento dei suoi “utenti” finali, ovvero gli studenti.
Un miglioramento qualitativo passa certo attraverso la creazione di un mercato competitivo nel quale le Università si contendono gli studenti migliori e le loro rette, attraverso offerte formative sempre più qualificate. Ma la possibilità di scelta di questa o di quell’altra Università, da sola, non è sufficiente a produrre automaticamente più qualità. La ragione è semplice: quando la competizione agisce sul prezzo di un bene, le tasse di iscrizione nel nostro caso, se il prezzo aumenta, i primi soggetti a cambiare fornitore, sono quelli con un prezzo di riserva più basso, quelli cioè, che attribuiscono al bene in questione un valore relativamente basso. Ma se la competizione si esercita sulla qualità, a seguito di uno scadimento qualitativo, i primi ad andarsene saranno quelli che attribuiscono al bene un valore maggiore, quelli, cioè, con una qualità di riserva più alta. Proprio quei soggetti che l’Università può considerare interlocutori privilegiati, stakeholders con interessi largamente allineati ai suoi. Questo “fenomeno di inversione”, come l’ha chiamato tempo addietro Albert Hirschman, mette in luce che se l’unica opzione a disposizione di un “cliente” (vedi “studente”) è l’exit, vale a dire la rottura della relazione di fornitura, molti produttori nel caso di una competizione sulla qualità, vedranno allontanarsi proprio quei soggetti che possono costituire una risorsa preziosa per la riprogettazione del prodotto a la sua conseguente crescita qualitativa. All’opzione exit, dovrà essere allora affiancata la voice, la possibilità, cioè, di protestare e di agire dall’interno dell’organizzazione stessa per: “tentare di cambiare le pratiche, gli indirizzi e i prodotti dell’azienda da cui acquista o dell’organizzazione di cui si fa parte” (Hirschman, 1988:31).
Se ne deduce che nel sistema universitario gli studenti non possono essere pensati solamente come utenti finali, passivi e rassegnati, la cui rappresentanza, più o meno rappresentativa, può essere tranquillamente ignorata o sottovalutata. Essi, al contrario, sono una risorsa “progettuale e produttiva”, che va mobilitata e di cui l’Università, tanto più in un contesto come quello italiano, dove la mobilità studentesca è relativamente bassa, non può più fare a meno. Il mercato e la concorrenza potranno portare maggiore qualità solo se alla possibilità di uscita, si affianca la possibilità di rimanere all’interno dell’organizzazione e, attraverso il ricorso alla voice, di modificarne dal di dentro, pratiche, scelte, orientamenti.  
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