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Con un titolo così, forse dovrei parlare di educazione ambientale o auspicare un’attenzione per i consumi, richiamandone il pesante impatto sull’ecosistema. Dovrei soffermarmi sull’impatto negativo – anche per la formazione e per l’etica di cittadini e consumatori – delle scelte del governo italiano in relazione al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto.

Si tratta certo di questioni che coinvolgono dimensioni importanti dell’esistenza di quelle generazioni, sulle cui spalle graveranno le conseguenze dei comportamenti ambientalmente insostenibili di quella presente. Nel dare il titolo a queste righe avevo, però, in mente un’altra componente del rapporto tra educazione e sostenibilità, accomunata alle precedenti solo dalle prevedibili devastanti conseguenze per le giovani generazioni.
Ci riferiamo alle scelte messe in opera (ed a quelle ancora solo annunciate) dall’attuale governo in materia di scuola e di università – quelle che qualcuno ancora si ostina a chiamare “riforma Gelmini”. In effetti, aldilà di elementi francamente marginali (grembiule, voto di condotta… puro maquillage), non sembra davvero appropriato l’uso di un termine così importante come riforma. Gli elementi di cui dicevamo sembrano piuttosto porsi come specchietti per le allodole per distrarre l’attenzione dal contenuto principale di tali provvedimenti: una massiccia sottrazione di risorse da ambiti così critici per la convivenza civile. Non intendiamo analizzare il dettaglio di tali misure, ma – per soffermarci sull’ambito scolastico – il dato di maggior rilievo è indubbiamente la contrazione del tempo scuola, già realizzata in alcuni ambiti ed annunciata per altri. Ad essa si affianca la prospettiva di un significativo incremento del numero di alunni per classe, determinato dalla rimodulazione dei criteri per la loro formazione, come della riduzione dei plessi scolastici.
Riesce francamente difficile pensare che tali misure – come quelle che vanno a pesare sul mondo dell’università e della ricerca – possano contribuire ad una formazione più efficace per i giovani o che esse siano in grado di mettere a loro disposizione un sapere più solido, più duttile e più creativo. Eppure proprio questo è necessario oggi – per la costruzione di un futuro professionale per ognuno, ma anche per un sistema paese che voglia darsi esso stesso un futuro. Davvero c’è da chiedersi se nell’impostare tali provvedimenti, ci si sia seriamente interrogati sulle conseguenze a lungo termine di tali mosse, in un tempo che vede sempre più l’economia declinarsi come economia della conoscenza. In un tempo in cui alcuni numerosi paesi emergenti stanno investendo massicciamente in educazione e formazione, fornendo alle loro nuove generazioni strumenti di qualità per affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso ed esigente.
La prospettiva che anima le scelte del ministro Gelmini rivela piuttosto una valutazione della formazione scolastica come scarsamente rilevante per l’esistenza professionale delle persone, una considerazione della ricerca che vi vede un costo, più che una risorsa. È chiaro che – se potrà svilupparsi in tutta la sua devastante efficacia – tale prospettiva determinerà una progressiva destrutturazione del sistema formativo nazionale: un degrado della preparazione professionale delle giovani generazioni, ma anche un lento scadimento della ricerca anche in quegli ambiti in cui l’Italia ha punte di eccellenza. Certo, le conseguenze si faranno sentire solo gradualmente, ma proprio questo renderà più difficile porvi rimedio, quando esse si saranno manifestate appieno.
È per questo che ci sembra che – come per le scelte di politica ambientale – anche in quest’ambito si debba parlare di insostenibilità, di una drammatica insostenibilità educativa, destinata a pesare sulle esistenze personali di molti, ma anche sulla qualità della vita civile, sociale ed economica. Di un’insostenibilità che –come quella ambientale – si esprime in una politica di corto respiro, tesa a privilegiare esigenze immediate a scapito della solida progettazione di un futuro abitabile. Di un’insostenibilità dimentica della dimensione temporale del bene comune, della responsabilità politica nei confronti delle giovani generazioni.
Certo, ragionare su un orizzonte più ampio – in campo ambientale, come educativo – esige un senso forte della complessità, che appare ben lontano dalla cultura dell’attuale classe dirigente. Come riaprire, allora, prospettive diverse? Quale contributo può offrire un pensiero davvero attento al bene comune?
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