In ogni azione umana c’è dunque una componente tecnica, una abilità ed una competenza disciplinare da spendere, ma allo stesso tempo c’è una componente di senso, una competenza in umanità da affinare e mettere in gioco. Non c’è gesto che possa fare a meno di queste due componenti. In altre parole, non basta sapere «come fare», è importante cogliere il senso di ciò che si sta facendo: bene il know-how, ma ricordiamoci del know-why.
La scuola di Fioroni si direbbe aver ripreso consapevolezza di tutto questo: al centro dell’attenzione non più internet inglese e impresa – importanti, per carità – , ma la persona nello sviluppo integrale delle proprie competenze, anche di quelle umane.
Le diverse proposte in campo (giudizio di ammissione in terza media, esami di riparazione…) sono in fondo coerenti con la prospettiva generale che emerge dalle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, pubblicate dal Ministero della Pubblica Istruzione in veste definitiva nel mese di settembre – documento a cui peraltro la scuola stessa ha contribuito in maniera rilevante–: in primo piano la crescita della persona, anche con la valorizzazione delle tappe, delle verifiche e del loro significato. Gli «sbarramenti» che vengono riproposti – dopo una stagione piuttosto disinvolta, che ha trasformato l’università in un super-liceo dove occorre saldare tutti i debiti regressi – hanno anzitutto una forte valenza pedagogica: rimettono in circolazione idee come «fatica» (quella di studiare), «responsabilità» (nella scelta di come impiegare il proprio tempo, bilanciando studio e divertimento), «etica» (nella scelta di fare spazio a discussioni ed approfondimenti sul know-why).
Soprattutto c’è una questione di fondo ben posta, che però talvolta sfugge a chi si ferma a considerare solo i nuovi provvedimenti senza considerarne l’ispirazione e l’intenzionalità: è urgente ridare cittadinanza nello spazio pubblico – e l’istruzione, specie secondaria, è uno spazio formidabile in questo senso – alla discussione ed al confronto sul senso dell’umano. Occorre cioè superare quel malinteso senso della laicità che vorrebbe veder confinate nel privato le motivazioni dell’agire, accogliendo nel pubblico solo le regole, le tecniche e le procedure. Ciò non significa evidentemente che la scuola (pubblica o privata) debba impartire una formazione etica o inculcare una visione del mondo, sostituendosi così alla famiglia, alle comunità o alle tradizioni extrascolastiche: significa invece che la scuola – proprio riconoscendo che ogni persona è spontaneamente portatrice di una visione del mondo e di una attitudine morale, e che questi non sono affatto ingredienti irrilevanti – sollecita ciascuno a prendere consapevolezza di tutto questo, ed offre spazi di laboratorio per imparare a confrontarsi con gli altri.
La scuola sembra voglia ricominciare a dire ad alta voce che è importante, è serio e non è affatto una perdita di tempo confrontarsi sui perché e non soltanto apprendere i come. Qualcuno ha capito che, se si vuole contare domani, tra dieci, venti, trent’anni su persone (insegnanti, politici, dirigenti…) capaci di orientare al bene comune il vivere insieme, occorre ritessere il facere con l’agere.