Come ci si regola oggi in una scuola del nostro Paese quando bisogna iscrivere gli alunni – e tra questi quelli di cittadinanza non italiana – nelle singole classi?
Si fa riferimento alla circolare n. 20 del 23 ottobre 2007 “La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri”. Ebbene, la prima delle 10 linee di azione che vengono puntualmente indicate in questo documento molto operativo riguarda appunto le “pratiche di accoglienza e di inserimento nella scuola”. Qui non si improvvisa ma si rinvia al Collegio dei docenti (e in molti casi ad un’apposita Commissione di accoglienza) che provvede a distribuire gli alunni stranieri nelle varie classi. La Circolare ministeriale n. 93 del 2006 che è relativa alle iscrizioni per l’anno scolastico 2007-2008 ribadisce poi che il Collegio dei docenti formula proposte per la ripartizione degli alunni stranieri nelle classi, evitando la costituzione di classi in cui risulti predominante la loro presenza ai fini di una migliore integrazione e di una maggiore efficacia didattica per tutti.
Proprio qui sta il punto: qual è il numero massimo di alunni stranieri per ritenere che siamo dinanzi ad una presenza “predominante”? Ritengo che in una classe di 20-25 alunni italiani possano essere inseriti fino a 5 alunni stranieri (il 25%) e conservare una situazione di sostanziale equilibrio.
Un numero superiore potrebbe forse diventare problematico. Ma la richiesta dei consiglieri torinesi di AN, di non superare il 10% del totale, mi sembra una forzatura ingiustificata sotto ogni profilo: psicologico, sociologico e pedagogico-didattico.
Il problema si pone seriamente quando il numero degli alunni stranieri – come avviene spesso in tante scuole, soprattutto al Nord – è di gran lunga superiore al 25-30% degli studenti italiani. Che fare in questo caso? Proporre la dislocazione degli alunni stranieri in esubero in altre scuole ubicate altrove, oppure affrontare la nuova situazione con criteri organizzativi del tutto nuovi?
Non si dimentichi, infatti, che da circa vent’anni la scuola italiana ha compiuto una scelta pedagogica qualificante e coraggiosa: quella di scommettere sull’interculturalità non come una proposta educativa rivolta agli stranieri ma come la nuova normalità dell’educazione per tutti e un comune sfondo integratore. La presenza del diverso per etnia, lingua, cultura e religione non è una minaccia ma una opportunità di crescita e di arricchimento. L’altro, in questo senso, diventa un valore e una risorsa per una convivenza rispettosa e serena.
All’interno della scuola, l’interculturalità è chiamata a diventare non solo una forma di educazione antirazzista ma una vera grammatica di civilizzazione.
Le classi si presentano come un luogo di scambio, uno spazio di costruzione identitaria di tutti gli alunni. Compito degli insegnanti sarà quello di favorire l’ascolto, il dialogo, la comprensione reciproca. Allo stesso tempo, si cercherà di favorire la socializzazione degli alunni anche nello spazio extra-scolastico e nel gruppo dei pari. Si tratta dunque di fare di ogni classe un luogo di comunicazione e di cooperazione, sviluppando anche quelle strategie di apprendimento cooperativo che, in un contesto di pluralismo, possano favorire la partecipazione di tutti ai processi di costruzione delle conoscenze.
La scuola non può essere pensata come una gabbia di protezione, come fosse un recinto o un apartheid. L’Anno europeo del dialogo interculturale che sta coinvolgendo con tante iniziative i 27 Paesi dell’Unione Europea ci offre la conferma che questa è l’indicazione di marcia. Senza eccessi di paura e senza inopportune drammatizzazioni. Lo slogan che è stato scelto mi sembra significativo e programmatico: “insieme nella diversità”.