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Le recenti riflessioni sul rapporto tra valori religiosi e potere legislativo hanno finalmente svelato il punctum dolens cui convergono i pensieri del Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini: il tema della laicità. Tema antico e oggi sempre più evocato ogniqualvolta si verta su idee e proposte che vedono la Chiesa cattolica annoverata tra i soggetti che le formulano.

Ma il dato più interessante consiste nella curiosa singolarità che il richiamo alla laicità della politica non si verifica per tutte le ammonizioni provenienti dalla cattedra petrina, ma in specie per quelle posizioni che non collimano con la propria impostazione culturale. In particolare quando si annunziano prese di posizione sull’inizio o la fine della vita, ecco che le stesse vengono stigmatizzate quale indebita intromissione nelle prerogative dello Stato, laico appunto. Ma vi è di più. Ove vi siano laici, che, singolarmente impegnati in politica, assumano posizioni analoghe a quelle proposte dal magistero, quand’anche fossero argomentate con riflessioni scientifiche, sociali o filosofiche, non sono esenti dall’accusa di integralismo. E’ quanto avvenuto – e tuttora accade – nel dibattito sulla bioetica, come dimostrano le disinvolte esternazioni del Presidente Fini, che da ultimo ha incardinato una banale dichiarazione (”Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso”) nel contesto di un più ampio ragionamento sulla legge relativa al testamento biologico.

Mi soffermo allora sull’aspetto di maggior conflitto della legge: il divieto di inserire, all’interno delle dichiarazioni anticipate di trattamento, direttive relative all’alimentazione e all’idratazione, considerate forme di sostegno vitale.

Lo affronto con un solo argomento, che a me pare dirimente: ammettere per legge che un cittadino in piena salute possa vincolare un medico ad una pratica di eutanasia passiva (come è stata appunto inquadrata la morte della Englaro dagli stessi giuristi favorevoli a quell’epilogo) da attivare sulla propria persona nell’eventualità che un giorno non si sia più in grado di intendere e di volere, trasforma il ruolo del medico – che è quello di curare – in esecutore materiale di pratiche interruttive della vita, perlopiù senza alcuna certezza che davanti all’attualità dell’evento il paziente avrebbe davvero confermato quella volontà espressa in condizioni e momenti del tutto diversi. Ed essendo il malato un soggetto certamente debole, è dovere della politica farsi carico del problema, anche per non ingenerare prassi di abbandono terapeutico, magari dettate più da un’analisi costi-benefici, che non dalla necessaria salvaguardia della salute di ciascun paziente.

La tutela della salute è un valore laico. Forse ciò equivale a ricondurre tali istanze di protezione nell’alveo di posizioni immediatamente riconducibili ad un credo religioso, soltanto perché condivise anche dalla morale cattolica? No, è tema che riguarda il cittadino, oggi componente della polis da tutelare in tutte le fasi dello sviluppo della sua personalità, e un giorno soggetto debole in uno stato di patologia o di vecchiaia.

Ma sul tema specifico della legge sul fine vita vi è un di più e di non poco conto. La nostra Carta costituzionale indica che la salute non è soltanto un diritto individuale, ma un interesse della collettività, cosicché il desiderio di porre fine ad un’esistenza – che si può soggettivamente ritenere priva di dignità – non è detto affatto che vada assecondato automaticamente come se si fosse individui avulsi dal contesto della vita di relazione. L’articolo 2 della Costituzione – ricordo testualmente – nel riconoscere i diritti del singolo, richiede “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ed è dovere di solidarietà sociale assistere con il sostentamento anche artificiale il paziente impossibilitato a farlo da solo e nell’incertezza di una sua volontà attuale di segno contraria, che, per quanto ci si possa sforzare, non sarà mai provata fino in fondo attraverso la redazione di un pezzo di carta scritto in momenti lontani dal verificarsi della patologia, come del resto dimostrano gli infiniti casi di risvegli di persone, che hanno ringraziato i medici per aver disatteso i loro propositi eutanasici.

Dunque il punto più rilevante del testo di legge sul fine vita approvato dal Senato è che il personale sanitario non potrà più provocare la morte del paziente come è avvenuto nel caso Englaro, secondo una solitaria interpretazione operata dalla nostra Cassazione. Per il resto la legge ratifica principi e norme già contenute nel codice deontologico dei medici e ampiamente condivise. Del resto un richiamo alla libera determinazione del paziente, così radicalizzata anche nei confronti del medico curante, finisce per confliggere con i valori di fondo del nostro sistema giuridico-costituzionale che distingue con saggezza ed equilibrio tra scelte del singolo e scelte dell’ordinamento. Il delicato bilanciamento tra libertà dell’individuo e libertà di scelta dell’ordinamento si è, infatti, sin qui realizzato lasciando al primo i più ampi spazi purché la sua azione sia accettata dai consociati. Ove invece operi un giudizio di disvalore, l’azione del singolo rimane circoscritta in un ambito personale ed esercitata attraverso atti personalissimi e non delegabili. Questa è l’essenza della nostra democrazia che si fonda su giudizi della comunità politica, e dunque del Parlamento che li attua e non può sottrarsi dal prendere posizione. Rimanere neutrali o indifferenti significa sradicare dalle democrazie i valori fondamentali – certamente anche di matrice trascendente – del suo popolo. E’ un paradigma inaccettabile e foriero di nefaste conseguenze perché l’anarchia dei valori storicamente ha sempre finito per rendere i deboli ancora più indifesi e i malati ancora più fragili.

Sono tesi che possono certamente non essere condivise, ma mi sembra azzardato attribuire un’etero-direzione di carattere religioso a chi di queste posizioni si fa portatore. Così come appare forzato ritenere che un Parlamento sovrano finisca per l’essere orientato da “precetti”, ove la sua posizione non collimi sui temi etici con quella di chi lo presiede.

Altro è il tema pur collegato dell’effettiva rappresentatività dei membri del Parlamento – presidenti compresi – oggi designati dai partiti e non eletti dal popolo. Ma questa è un’altra storia.

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