I richiami più rilevanti della Prolusione a proposito di una legge sul fine vita, si esemplificano in quattro indicazioni principali. Prima: riconoscimento legale a “dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”. Seconda: garanzie di presa in carico del malato e di rapporto fiduciario con il medico. Terza: inefficacia di dichiarazioni che si riferiscano a trattamenti di sostegno vitale (come alimentazione e idratazione). Quarta: finalità di evitare, da un lato, inutili forme di accanimento terapeutico e, dall’altro, forme di eutanasia mascherata e di abbandono terapeutico. rn
Ora, la prima indicazione, sull’ammissibilità di “dichiarazioni inequivocabili” è stata da taluno interpretata come un’apertura al testamento biologico.
E’ un’interpretazione forzata. Come è noto il testamento biologico è un documento nel quale una persona, in piena capacità, esprime il suo assenso o dissenso circa trattamenti che potrebbe subire nell’eventualità del verificarsi di un evento traumatico con perdita di coscienza. Tale strumento è del tutto in contraddizione con le quattro indicazioni riportate. Il testamento biologico si compone, infatti, di dichiarazioni strutturalmente “equivocabili” in quanto riferibili ad un evento non ancora avvenuto, e dunque senza alcuna certezza che le stesse dichiarazioni si riproporrebbero identiche nell’attualità del verificarsi del trauma e delle relative informazioni sulle terapie da attivare, che, peraltro, mutano nel tempo. Inoltre il testamento biologico può, tecnicamente, contenere indicazioni relative a forme di abbandono terapeutico. Utilizzare l’espressione “testamento” equivale a dire che – come avviene per il patrimonio nell’eredità – si può liberamente disporre del bene oggetto della dichiarazione. Ciò va nella direzione opposta al principio che della vita umana, secondo il diritto, non se ne può disporre come se fosse una cosa. E va decisamente contro il contenuto delle riflessioni del cardinale Bagnasco su questo punto.
Altri sostengono che questi richiami possono leggersi piuttosto come un’apertura alle c.d. DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento). Occorre però sottolineare che non si trova nella Prolusione alcun riferimento all’espressione “anticipate”. Il presidente della Cei parla di “dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”, non invece di “dichiarazioni anticipate”. Qui si annida l’errore in cui molti commentatori sono incorsi. Il problema giuridico dell’ammissibilità o meno di tali dichiarazioni si può enucleare così: quanto tali dichiarazioni possono essere retrodatate rispetto al trattamento? E’ pacifico che il paziente, una volta informato sull’intervento, sui rischi e le conseguenze, possa rifiutarlo (si tratta di una libertà costituzionale, che non implica che la decisione sia anche moralmente accettabile). Con l’unica eccezione della sentenza minoritaria e solitaria del caso Englaro, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità è chiaro: il dissenso ad un trattamento sanitario (e non di sostegno vitale) è ammissibile nella misura in cui il paziente sia in grado di effettuare un “giudizio” informato in ordine alla propria situazione sanitaria. Non lo è invece in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso. Dunque, ove il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizione di esprimersi pienamente, un dissenso ex ante, dichiarato ancor prima del verificarsi della patologia, è inefficace, in quanto privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica, che non può che ricollegarsi alla vicenda concreta.
Ciò significa che mentre nelle patologie a lenta evoluzione, una dichiarazione di trattamento potrebbe essere ammissibile nell’attualità delle prime fasi della malattia, non è consentito che, nella diversa situazione di un evento traumatico imprevedibile, la dichiarazione sia retrodatata ad un momento antecedente al verificarsi del trauma improvviso. Ragionando diversamente, posta l’impossibilità di affermare che quella valutazione sia ancora attuale davanti al concreto accadimento e alle relative specifiche indicazioni terapeutiche, si finirebbe per ribaltare il principio secondo il quale nelle situazioni di incertezza non può che prevalere la scelta collegata al diritto di rango costituzionale più importante, che è il diritto alla vita.
Le “dichiarazioni” possono piuttosto rappresentare un contributo utile per casi dubbi di accanimento terapeutico. E’ certamente il medico a sapere in scienza e coscienza se ci si trova davanti a situazioni di accanimento terapeutico, ma le dichiarazioni del paziente possono rafforzare il dialogo e chiarire un diverso grado di sopportabilità di una terapia.