In questi casi, che fare? Rinunciare all’uso per evitare l’abuso, o riqualificarla e fare un po’ d’ordine nella babele linguistica?
Prova a farlo un piccolo volume edito da Bompiani, a tre voci, il cui titolo “Individuo e persona. Tre saggi su chi siamo” affida a tre approcci (biologico, antropologico e giuridico) e a tre studiosi (rispettivamente, G. Boniolo, G. De Anna, U. Vincenti) un’indagine che è linguistica ed etica, come sempre avviene quando vogliamo parlare responsabilmente in uno spazio pubblico, orientato al bene comune.
Non intendo qui recensire un testo, quanto – a partire dalle sue suggestioni – rivisitare una parola cruciale della questione antropologica, nella concretezza che assume misurandosi con i temi eticamente sensibili, legati alla bioetica. E’ qui che la domanda e la risposta su “chi siamo” abbandonano i cieli della speculazione astratta e vanno a costruire le premesse valoriali della decisione concreta. Perché questo è il punto: sulla vita possiamo “tecnologicamente “decidere, dal nascere al morire, ma il progresso tecnico-scientifico non può sostituire e mettere a tacere il compito etico e l’orizzonte valoriale di riferimento.
Qui entra in gioco la “persona”. E’ una parola che accomuna (ha accomunato ad esempio nelle vicende legislative della Legge 40) interlocutori diversi che però, mentre in qualche misura concordano sulla sua decisività, non sono poi d’accordo sul come e dove tracciare la linea di confine della sua applicazione. Farne a meno, come suggerisce il biologo che ripiega in questo testo sul più modesto uso di “individuo”, è un escamotage che aggira il problema ma non lo risolve.
La lettura combinata degli altri due saggi suggerisce invece interessanti e perfino sorprendenti prospettive.
Anzitutto: quando diciamo “persona” evochiamo simultaneamente due universi linguistici, quello giuridico e quello teo-antropologico. Come a dire: l’orizzontalità dei rapporti sociali interumani e la verticalità dell’uomo creato a immagine di Dio, del Dio personale appunto e trinitario. Anche solo questa simultaneità basta a far capire come il terreno del confronto tra credenti e non credenti si faccia inevitabilmente scivoloso e pieno di equivoci. Ma non impossibile, come tenterò di dire in queste brevi note.
Due elementi vorrei infatti sottolineare, utili ad una ragionevole pensosità nell’uno e nell’altro campo, sulle questioni della bioetica. Il primo: in un caso e nell’altro, nell’orizzonte giuridico come in quello teo-antropologico, persona dice che c’è un “oltre” l’apparire dell’essere umano che non è dato vedere. “Maschera” è infatti l’etimo di persona giuridica che indica nel diritto romano chi agisce sulla scena sociale protetto e nascosto da ruoli e funzioni giuridicamente rilevabili e rilevanti.
“A immagine” è la persona che solo analogicamente rinvia al mistero del Dio personale, essa stessa dunque mistero che nessun riduzionismo antropologico o tanto meno biologico può esaurire.
E se provassimo a ripartire da qui? Da questa ulteriorità dell’essere umano che viene custodita da entrambi i significati di persona?
Il secondo rilievo riguarda specificamente l’orizzonte e l’uso giuridico. Nel diritto romano – si legge nell’ultimo dei tre saggi – si identificava la persona nel pater-dominus capace di esercitare fattualmente il diritto proprietario. Di impossessarsi cioè delle cose, di toccarle, afferrarle, maneggiarle in segno di un dominio esclusivo ed escludente. Per questa via, diventa difficile pensare al feto come ad una persona, poiché, prima dell’espulsione dall’utero materno, non può fisicamente toccare una cosa del mondo esterno. Ma questa negazione di statuto giuridico si radica in una maschera-prototipo di persona che non possiamo non sentire riduttivamente schiacciata su quel modello proprietario.
I progressi della scienza prenatale, una diversa temperie antropologica e giuridica ci dovrebbero spingere a riconoscere la persona anche là dove non c’è una mano in grado di “afferrare” i propri diritti come cose esterne. A riconoscere l’essere umano vivente anche sotto le “maschere” che sempre per approssimazione abbiamo storicamente inventato per nasconderne l’abbagliante preziosità e unicità.